Al lettore che è attratto e in qualche modo perplesso per la conversione di questo Paese allo Zajaismo, e potrebbe sentire nient’altro che avversione nei confronti della figura riprovevole nel cui nome sono state commesse atrocità, rivolgiamo il caldo invito a riesaminare – qui – la storia della vita di Zaja in persona.

Le testimonianze sono frammentarie poiché le sue gesta si estendono lungo un periodo a cavallo tra preistoria e storia; tuttavia, la figura di Zaja ricorre di quando in quando in documenti autentici di età storica molto antica, e in epoca più recente il suo nome è stato invocato per legittimare ogni cosa, perfino quel genere di azioni che oggi sarebbero giudicate crimini contro l’umanità.

La storia della sua vita che ora raccontiamo, dunque, è stata ricostruita ricorrendo a fonti storiche autentiche, al corpus del folklore che gli è nato intorno – elementi del quale sono senza dubbio apocrifi – e al materiale di propaganda che a tutto questo è stato aggiunto da una serie di fanatici propagandisti, cominciando da Shumaka.

Il culto che si è sviluppato intorno a Zaja era destinato a risentire più della figura del primo propagandista, Shumaka, che di quella di Zaja in sé stesso. Per questo motivo l’autore si è disposto al più scrupoloso dei cimenti per passare al setaccio tutto il materiale disponibile e proporre al lettore contemporaneo un racconto coerente della vita di Zaja nella sua originaria semplicità. Poiché la vita e il pensiero di questo grande e influente maestro sono sempre stati riportati in una forma che li validava come fatti quasi storici intrecciati a leggende, parabole e racconti popolari, l’autore ha accettato che questa mescolanza fosse il mezzo più appropriato per riportare, ora, la sua ricostruzione dei fatti.

Le immagini che si ritiene Zaja abbia utilizzato per la divinazione hanno attratto allo stesso modo studiosi e seguaci lungo il corso dei secoli, e potrebbero aver rappresentato una prima versione dei Tarocchi: quindi l’autore ha preso ispirazione dai Tarocchi, collocando la sua storia sullo sfondo degli Arcani Maggiori.

In principio era un leprotto, e il leprotto era molto scaltro, molto curioso e molto audace. Avendo imparato tutto ciò che si potesse apprendere sulla sua specie, partì all’esplorazione del mondo. Quando incrociò degli esseri umani, pensò che parevano interessanti e, nonostante tutti gli avvertimenti che aveva ricevuto, decise di studiare i loro usi e costumi.

Un giorno gli capitò di trovarsi in un insediamento di umani, e decise di fare un giro fra le loro tende per dare un’occhiata da vicino. E quando gli umani lo beccarono a vagare e ad allungare gli occhi nelle loro tende, restarono stupefatti dalla sua aria disinvolta. Uno di loro l’afferrò per gli orecchi, e già stava per cucinarselo per cena, quando un altro disse: ‘Non ucciderlo, è troppo carino per mangiarlo’. Così si sedettero in cerchio per discutere che fare del leprotto, se non lo si fosse mangiato per cena. Uno disse: ‘Portiamolo stasera in regalo alla piccola Principessa Caoimhe quando andremo in visita al Castello. Ha un’aria così solitaria... Ma è appassionata di animali, e potrebbe farle piacere avere un animale da compagnia’. E siccome adoravano la Principessa e credevano che sarebbe stata felice con la bestiola, tutti pensarono che donarle il leprotto fosse una splendida idea.

La Principessa fu molto contenta del regalo. Lo prese immediatamente fra le braccia e sussurrò ‘Zaja, povero Zaja’ accarezzandogli il manto morbido. E continuò ad accarezzarlo affettuosamente anche quando gli ospiti se ne furono andati.

Il leprotto era contento della sua nuova situazione, e ogni giorno aspettava con impazienza il momento in cui la Principessa andava a liberarlo dalla gabbia e lo accarezzava, sempre pronunciando le solite strane parole, ‘Zaja, Zaja mio’, mentre lui le mordicchiava le dita. Non capiva il senso quelle parole, né la devozione con cui la Principessa gli accarezzava la testa e il dorso. Alla fine si convinse che la Principessa fosse vittima di qualche incantesimo di una strega o di uno stregone che da lepre l’avevano trasformata in donna, condannandola a una vita da essere umano. Si ricordava di una storia raccontata durante le riunioni segrete degli anziani del popolo delle lepri, di come un incantesimo di quel tipo potesse essere sconfitto da un bacio. Così arrivò alla conclusione che avrebbe baciato la Principessa, l’avrebbe trasformata in una splendida lepre femmina, e sarebbero vissuti insieme felici per sempre. Non appena la Principessa lo prese dalla gabbia, gli accarezzò il dorso, e piegò il collo per avvicinare il suo viso a lui, il leprotto alzò di scatto il muso e la baciò sulle labbra.

La Principessa fu profondamente sconvolta dal bacio. Poco più che bambina com’era, non aveva mai fatto esperienza di un bacio sensuale. Così chiuse gli occhi e baciò di nuovo il leprotto sulla punta del suo muso luccicante. Fu di nuovo scossa dalla sensualità del bacio. Quando aprì gli occhi e fissò lo sguardo sugli occhi rapiti del leprotto, ne fu enormemente turbata. I suoi sentimenti erano un groviglio di confusione, colpa e desiderio.

Non poteva tollerare di posare ancora lo sguardo in quegli occhi così assorti, quegli che sembravano portare il peso di tutta la tristezza del mondo. Così chiamò la domestica e le chiese di portare via il leprotto e di lasciarlo libero nella foresta.

Ora: la domestica era una donna di grandissimo buon senso. Sapeva che se l’avesse liberato nella foresta il leprotto probabilmente sarebbe diventato un ottimo pasto per il primo tasso o la prima volpe in cui si fosse imbattuto. Lei stessa aveva un debole per lo stufato... Così prese con sé il leprotto e banchettò, quella sera, con il suo piatto preferito.

Quella notte la domestica ebbe sonni agitati. All’inizio ne attribuì la colpa alla cena abbondante che ancora si sentiva pesare sullo stomaco. Quando era già quasi mattina, si svegliò all’improvviso nel terrore, perché aveva sognato di essere incinta. Era una specie di presentimento che non svaporò nemmeno dopo il risveglio, nonostante che prima d’allora non avesse mai fatto esperienza di una gravidanza.

Era doppiamente terrorizzata, perché il marito era lontano da tre mesi, al servizio del Re. Andò immediatamente dalla Principessa e le chiese di implorare il Re affinché richiamasse il marito avvertendolo che lei non stava bene. Il marito ritornò, e – vedendo che la moglie si era ripresa – la ricoprì d’amore. In questo modo, la sua gravidanza misteriosa si rivestì di legittimità.

Il bambino, che nacque perfettamente a tempo con l’arrivo del marito della domestica, era profondamente amato dai genitori. Era anche una delle grandi passioni della Principessa, che lo ricopriva d’affetto. Si affacciò all’età giovanile dopo essere stato il più dolce tra i bambini, indifferente tanto alle sue umili origini quanto alla sua esistenza nella bambagia. Ogni giorno andava a giocare negli alloggi della Principessa, e per lei sentiva lo stesso attaccamento che sentiva per la madre e il padre.

La Principessa divenne a poco a poco sempre più legata al ragazzo. Le ore in cui lui stava lontano da lei erano pesanti e noiose; e quelle in sua compagnia erano pura delizia. Erano i suoi occhi ciò che la Principessa trovava particolarmente seducente: dolci e tristi, pieni di tenerezza e di sentimenti delicati. Le ricordavano lo sguardo che una volta aveva visto negli occhi di un leprotto; così, inventò per lui un nomignolo: lo soprannominò Zaja. E quando passava le dita tra i capelli del bambino, sussurrava: ‘Zaja, mio caro Zaja.’

Il giovane crebbe intelligente e robusto, e diventò bello quanto aggraziato. Il soprannome usato dalla Principessa restò associato al giovane, così che tutti lo conoscevano con quel nome. Un giorno Zaja andò dalla Principessa e la trovò a capo chino sulle ginocchia. Capì che era triste, corse da lei e le gettò le braccia al collo. La Principessa sollevò lo sguardo dalla contemplazione della sua solitudine verso il viso intenso e amorevole del giovane. Gli si strinse con impeto e lo baciò sulla bocca. Fu solo un attimo, ma il bacio di quel giovane le attraversò tutto il corpo in un diluvio di frenesia. Poi, quando la Principessa guardò i grandi occhi innamorati del giovane, si rese conto che i suoi stessi sentimenti la inquietavano profondamente. Quella sera parlò con la domestica e le disse che per il ragazzo era arrivato il momento di intraprendere la via per la ricerca della conoscenza. Le disse che si sarebbe personalmente sincerata di garantirgli l’educazione adatta a un principe. E che si impegnava a fargli ricoprire, in seguito, un incarico di responsabilità al servizio di suo padre.

Zaja fu condotto al cospetto del Consigliere Capo del Re per ricevere istruzioni su come intraprendere la Ricerca della Conoscenza. Il Re aveva disposto che il giovane avesse con sé lettere di presentazione alle corti degli altri quattro Regni del Paese, di modo che potesse ricevere la migliore educazione in tutte le arti, ma al suo Consigliere Capo ordinò anche di affidargli il più arduo dei compiti, così che non facesse ritorno per molto tempo. In verità il Re aveva notato l’enorme affetto che la Principessa dimostrava verso il giovane, e ne era preoccupato, poiché sarebbe giunto presto per lei il momento della scelta di un marito; e sarebbe stato meglio se la Principessa avesse riservato il suo affetto per un corteggiatore qualunque che catturasse la sua attenzione.

Il Consigliere del Re consegnò le lettere nelle mani di Zaja. ‘Nel Regno dell’Est apprenderai come si padroneggia l’arte della guerra, perché la loro è la più grande delle accademie militari. Nel Regno del Sud imparerai a creare e realizzare oggetti con le tue mani, perché quello è il luogo in cui vivono i migliori fabbri, carpentieri e pittori. Nel Regno dell’Ovest imparerai l’arte della parola, perché quello è il luogo in cui si possono trovare i più grandi poeti e narratori. Infine, andrai nel Regno del Nord e imparerai ad avere il governo sulle idee, perché quello è il luogo in cui troverai i filosofi più acuti’.

Il Consigliere aveva visto Zaja di quando in quando alla scuola del Castello. Gli augurò buona fortuna e gli disse: ‘Se apprenderai le cose nel modo giusto, potrai diventare un grande uomo. E la sfida che ti è stata assegnata deve necessariamente essere ardua, perché sei capace di grandi cose. Devi avere l’obiettivo della saggezza, ma non dovrai tornare finché non avrai sconfitto il Serpente. Questa è la più straordinaria delle sfide mai assegnata a chicchessia’.

Zaja rabbrividì di fronte alla Ricerca che avrebbe dovuto percorrere. ‘Dove troverò il Serpente?’, chiese.

‘Trovarlo fa parte della sfida’, gli rispose il Consigliere. ‘Non ti posso dare nessun altro suggerimento, tranne rivelarti il tuo tabù per darti un’indicazione: e cioè che non va piantata nessuna ghianda nel luogo in cui non potrai prenderti cura delle piantine di quercia’.

La Principessa Caoimhe si era trasformata da bellissima ragazza a bellissima donna. A volte era felice, ma la maggior parte del tempo si sentiva triste e sola. Nessuno, fra tutti i giovani che aveva visto al Castello o nei suoi viaggi in giro per il regno, l’aveva fatta innamorare. Alla fine il Re si fece prendere dalla preoccupazione. La Principessa era la sua unica figlia, e la questione dell’erede cominciava ad agitarlo. Se non ci fosse stato un erede al trono, il Regno sarebbe stato ridotto a brandelli dai regni confinanti, come la carcassa di un agnello sbranata da sciacalli affamati. Il Regno poteva diventare preda degli avidi vicini. E il Re era molto preoccupato che il suo popolo potesse finire maltrattato. Così affrontò la figlia e le parlò delle sue preoccupazioni politiche. Così come amava la figlia e le augurava ogni felicità, altrettanto si sentiva responsabile per le sorti del suo Regno e della sua gente.

Anche la Principessa era preoccupata, e accettò di sposarsi, e di mettere al mondo un erede che avrebbe messo in salvo il futuro del Regno. Il padre le garantì che avrebbe potuto sposare qualunque uomo avesse voluto, senza riguardo al fatto che la sua origine fosse nobile oppure umile.

E così la ricerca di un marito per la Principessa ebbe inizio. I soldati dell’esercito si misero in coda raggruppati per singole divisioni, e per singole divisioni furono respinti, perché alla Principessa non piacevano i loro occhi d’acciaio. I giovani di corte si misero in fila convinti di ottenere un risultato migliore, ma la Principessa si stancò in fretta della loro aria di sufficienza. Giovani prìncipi da tutti i regni confinanti presentarono sé stessi e le loro credenziali, ma nessuno di loro ebbe alcun successo nel tentativo di accendere un fuoco nel cuore di Caoimhe. Allora la Principessa si mise ad andare in giro per il Regno tra mercati e fattorie; ma non si imbatté in nessuno capace di destare in lei il benché minimo interesse.

Il fallimento rese il suo cuore pesante come quello del padre.

E venne il giorno in cui il figlio della domestica fece ritorno dalla sua Ricerca del sapere. Camminava lungo la strada principale con un passo così leggero da impressionare chiunque posasse i suoi occhi plumbei su di lui. E quando lo guardavano in faccia, tutti vedevano un ardore che pensavano fosse da molto tempo scomparso dal mondo. Il giovane era felice di essere di nuovo sulla strada di casa dopo il suo lungo esilio, e non sapeva niente del miserevole stato del Regno, né del fatto che era in corso la ricerca di un compagno per la Principessa.

La gente non lo riconobbe, e lo scambiò per l’ennesimo pretendente di Caoimhe. E quando lo ebbero squadrato per bene, realizzarono che questo poteva essere quello giusto. Lo seguirono, allora, lungo la strada, tanto che quando arrivò al Castello – preceduto dalla notizia che un altro pretendente della Principessa s’era fatto vivo – aveva dietro di sé una specie di scorta.

A Palazzo ci si mise subito in allerta, e il Re, la Regina e la Principessa presero posto nel Salone Principale, con tante speranze ma poche aspettative, perché erano parecchie settimane che nessun pretendente si faceva più avanti.

Nel frattempo il giovane procedeva sicuro di sé e a grandi falcate verso il Castello, convinto che la gente si fosse radunata per dargli il bentornato a casa. Nel Salone Principale, per fargli largo la folla si divise in due ali. Egli si incamminò dapprima, secondo protocollo, verso il Re, e gli fece l’inchino. Poi si inchinò al cospetto della Regina, e infine si diresse verso la Principessa; la guardò negli occhi sorridendo, e s’inchinò anche davanti a lei. La Principessa fu trafitta fino alle profondità dell’anima dall’espressione di quegli occhi, che pareva contenessero contemporaneamente tutta la solitudine del mondo e tutta la gioia della vita. Solo due volte prima d’allora aveva fatto esperienza di sentimenti così intensi negli occhi di qualcuno, e nel suo stesso cuore. Il Re la fissava e quando incontrò il suo sguardo, lei annuì.

‘È questo il giovane che vuoi sposare?’, le chiese. E lei disse semplicemente ‘sì’.

Nel Salone Principale risuonò un boato e immediatamente prese vita una festa. La gente era sopraffatta dalla gioia, non solo perché il Regno sembrava ormai essere in salvo, ma anche perché la Principessa aveva trovato un compagno scelto col cuore, e lui sembrava degno di lei. Quando fu riportato un po’ d’ordine, il Re allargò le braccia per accogliere il giovane. ‘Qual è il tuo nome?’, gli chiese. Il giovane, pieno di stupore, volse lo sguardo alla Principessa. ‘Non mi riconosci?’, chiese. ‘Io sono Zaja’.

Quando il Re capì quanto valore avesse il compagno scelto dalla figlia, abdicò in favore della Principessa Caoimhe. Ma lei rimise le sue responsabilità nelle mani di Zaja, che da quel momento diventò l’effettivo reggente del Regno Centrale. Tuttavia, il Reggente non accettò nessun titolo, e fu sempre conosciuto solo come Zaja. Governò, piuttosto, come un maestro, col potere della sua compassione, con la linearità dei suoi giudizi, e con il continuo incoraggiare la gente a ottenere dalla vita le migliori soddisfazioni.

Quando gli chiedevano perché non incoraggiasse alla felicità anziché alla soddisfazione, si metteva a ridere. ‘La felicità può rivelarsi una pericolosa illusione’, diceca Zaja. ‘Non può esistere niente di più che la gioia passeggera della soddisfazione. La soddisfazione può essere raggiunta nel dolore, nel tumulto e nella fatica, senza conoscere nemmeno un momento di piacere, e ciononostante, può essere profondamente gratificante. Può essere il risultato di una vita messa bene a frutto, un compito portato a termine, una buona azione. Ma il significato di simili soddisfazioni è di gran lunga più profondo del fatuo brivido dei sensi che associamo alla felicità’.

Zaja smantellò l’esercito, dicendo che sarebbe – sì – potuto arrivare il momento in cui tutti potevano morire per il loro Regno e per i loro princìpi, ma che non sarebbe mai accaduto che a un ragazzo o una ragazza venisse chiesto di ammazzare per il Paese.

Egli bandì ogni competizione e chiese al popolo di cancellare anche la semplice parola dalla propria testa. La competizione, diceva, è un concetto pericoloso perché divide le persone in due false categorie, quella dei ‘vincitori’ e quella dei ‘perdenti’.

La vittoria può essere tanto l’esito della sconfitta degli altri quanto il successo del cosiddetto ‘vincitore’. La competizione promuove la sconfitta in maniera più aggressiva di quanto non promuova il successo. Incoraggia l’inganno e la mentalità distruttiva. Al posto della competizione, Zaja sosteneva il ‘risultato’ come faro-guida verso il successo in ogni cosa. Spiegava che il risultato veniva sempre giudicato sulla base delle sue caratteristiche specifiche, e non sulla base del fallimento degli altri, e in questo modo promuoveva un atteggiamento costruttivo verso tutte le cose. Dove molti lottano per distinguersi in un particolare settore, il risultato riconosce il successo di colui che si è distinto, ma solo a paragone coi successi di tutti gli altri, e non in opposizione al loro fallimento.

Come giudice, Zaja dispensò decisioni con estrema lucidità e buon senso, così che – conseguentemente – a rimanere delusi erano in pochi. Ma qualche volta, quando gli si chiedeva di decidere su una disputa più complessa e aspra, Zaja radunava le parti in causa intorno a un tavolo. Poi prendeva un gruppo di piccole immagini che aveva con sé, e cominciava a disporle secondo schemi e combinazioni diverse. Si diceva che mentre i litiganti guardavano questi schemi, riconoscevano nelle immagini i loro difetti, la debolezza della loro posizione, i danni che alcuni effetti potevano produrre su di loro, e abbandonavano il tavolo decisamente inclini all’individuazione di una risoluzione bonaria della controversia direttamente con i loro vicini. Erano così grandi la paura e lo shock evocati dalla sentenza fornita dalle immagini, che la gente preferiva risolvere le proprie dispute scendendo a compromessi, piuttosto che sottomettersi a un simile arbitrato.

E quando la gente chiese a Zaja – in una di quelle sere in cui ci si ritrovava nella Piazza della città per discutere di istanze pubbliche e attardarsi piacevolmente in dibattiti – come fosse giusto che una persona conducesse la sua vita, egli rispose, sorridendo, con il suo celebre aforisma: ‘Non fate agli altri ciò che immaginate gli altri farebbero a voi; spezzate il ciclo’.

Quando Zaja era stato mandato alla Ricerca della conoscenza, era stato portato prima di tutto nel Regno del Sud, dove gli era stata riservata l’accoglienza degna del figlio di un Re. Imparò dai loro artisti, e acquisì la dimestichezza dell’uso della mano e dell’occhio. Quando giunse il momento di lasciare quel luogo, fu col cuore pesante che partì alla volta del Regno dell’Ovest.

Nel Regno dell’Ovest Zaja fu accolto con lo stesso calore e ospitalità. Imparò dai loro poeti la sottigliezza delle parole e il modo in cui le parole vengono maneggiate nel verso e nella prosa, luoghi capaci di custodire la conoscenza e la saggezza di un numero infinito di generazioni. E fu col cuore pesante che alla fine diede l’addio a tutti loro e si diresse verso Nord.

Nel Regno del Nord ciascun familiare del Re accolse Zaja nel cuore facendolo sentire uno di loro. Nutrivano una grande passione per la dialettica e, a corte, il passatempo preferito era dibattere. Zaja apprese la retorica, la logica e la metafisica dai loro filosofi, e prima di partire ebbe modo di confrontarsi col migliore, argomentando profusamente fino alle prime ore del mattino, quando il canto del gallo impose la propria logica su quella di tutti.

Quando raggiunse il Regno dell’Est, Zaja era ormai un giovane uomo completo. Fu accolto con formalità e civiltà, ma si rese subito conto che in quel luogo la cultura era differente. Gli fu assegnato un posto di cadetto nell’accademia militare. Ma dopo soli tre giorni spesi ad ascoltare giovani uomini vantarsi della loro idoneità al combattimento e del numero degli omicidi che avevano commesso, Zaja capì che quel posto non era adatto a lui.

Uno di questi giovani era acclamato e particolarmente ammirato da tutti come il migliore dell’accademia, destinato a una gloriosa carriera di guerriero. Era il nipote del Re, che un giorno si presentò di persona a osservare gli addestramenti del corpo dei cadetti. Impressionato dalle prodezze atletiche del nipote, cominciò a ridere e chiamò il capitano che si occupava dell’addestramento dei cadetti. ‘Prenditi buona cura di quel cadetto’, gli disse. ‘Diventerà un grande guerriero, un giorno. Ha l’anima di un cane’. E da quel giorno quel giovane prese il nome di ‘Shumaka’, il loro antico modo di definire un cane da caccia.

Zaja era perplesso su cosa mai avrebbe potuto utilmente imparare in quel luogo. Rifiutò di maneggiare le armi e non aveva nessuna inclinazione per l’atletica. Un giorno l’addestratore condusse tutti intorno a un pozzo nel quale lanciò una mela. ‘Ora, chi sarà in grado di recuperare la mela utilizzando soltanto il proprio arco e le frecce?’. I cadetti scrutarono la mela in fondo al pozzo.

‘Mettiamo un nastro alla freccia?’.

‘Nessun nastro: solo il vostro arco e le vostre frecce’.

I cadetti guardavano, e pensavano, e meditavano, ed erano confusi. Allora Shumaka fece un passo avanti. Diede un’occhiata alla mela, prese una freccia dalla sua faretra, e la scoccò nel pozzo perforando la mela. Poi lanciò un’altra freccia, che si fissò nella cocca della prima. Fece lo stesso con un’altra freccia, e di nuovo ancora e ancora, fino a quando non fu in grado di afferrare e sollevare la serie di frecce, e con esse la mela che stava attaccata alla freccia finale. La sua impresa originò un applauso spontaneo. Il piccolo gruppo dei suoi più accaniti seguaci intonò un canto che avevano inventato e cantavano d’abitudine ogni volta che potevano.

‘Shumaka, Shumaka,

Terrore, Terrore, Terrore’.

Ma Zaja alzò la voce sopra il clamore degli adulatori. ‘Se lo scopo è quello di recuperare la mela, un bastoncino biforcuto non avrebbe ottenuto il risultato con più facilità?’

Fu subito silenzio poiché la folla aveva compreso la stoccata e l’implicito affronto all’impresa di Shumaka.

Shumaka si impettì come un guerriero rabbioso. Si avvicinò a Zaja con la spada nella mano. ‘Il solo uso che potrei fare di un bastoncino biforcuto sarebbe infilzarlo nel tuo sedere e arrostirti sullo spiedo come si fa con un maialino da latte’.

‘Parli come un vero cane’, replicò Zaja.

‘Un segugio, un cane da caccia. Vorrei sfidarti a duello ma sarebbe come sfidare una donna anziana. Diventerei lo zimbello del Regno’.

‘Diventerai lo zimbello del Regno in ogni caso.’

‘Fai attenzione al morso del cane da caccia,’ replicò Shumaka con una minaccia feroce, e se ne andò, seguito dal drappello dei suoi ammiratori.

Tempo dopo, Zaja si trovò a passare vicino a un gruppo di bambini che saltavano con la corda e cantavano filastrocche. Si avvicinò.

‘Vi piacerebbe ascoltare una nuova filastrocca per saltare la corda?’, chiese loro.

‘Sì!’, risposero entusiasti.

‘Fate girare la corda, e ve ne darò una’.

Fecero girare la corda, e Zaja si mise a saltare, recitando la filastrocca.

‘Shumaka, Shumaka,

un, due, tre,

Shumaka, Shumaka,

lui chi è?

Shumaka, Shumaka,

alza la gamba così

Shumaka, Shumaka,

piscia sull’albero, lì.’

Scoppiarono in una fragorosa risata, soprattutto quando Zaia imitò un cane che alzava la zampa per fare la pipì mentre saltava la corda con l’altro piede. Era chiaro che essi conoscevano Shumaka per la sua reputazione.

Uno di loro disse: ‘A Shumaka non piacerà’.

‘Ma certo che gli piacerà’ replicò Zaja. ‘È divertente, e Shumaka ha un ottimo senso dell’umorismo. Starà allo scherzo’.

Ricominciarono a saltare, e questa volta, cantando la filastrocca su Shumaka, gareggiavano per mimare un cagnolino che fa la pipì. In capo a pochi giorni, ogni bimbo del regno aveva imparato la nuova filastrocca per saltare la corda, e tutti la cantavano e saltavano con allegria da monelli. Come fu come non fu, una mattina un bambino fu trovato appeso a un albero con una corda per saltare attorno al collo, annodata come per un’impiccagione. Questo mise fine a quella filastrocca, al salto della corda, e alle voci allegre dei bambini che giocavano.

Alla fine della stagione arrivò il momento in cui il gruppo di Shumaka si sarebbe congedato dall’Accademia. Tutti aspettavano con ansia la prodezza che Shumaka avrebbe presentato come prova finale, poiché egli era comunemente riconosciuto come il migliore cadetto che avesse mai frequentato quell’accademia. Anche altri si stavano preparando per mostrare i loro risultati nel tiro con l’arco, nel combattimento con la spada, nel lancio del giavellotto, perfezionando i dettagli dei loro saggi finali nei giorni che precedevano il congedo. Shumaka però scomparve per tre giorni e il banchetto era già cominciato quando il giovane fece il suo ingresso nella grande sala. Aveva uno zaino sulle spalle. Si diresse senza esitazione verso il tavolo principale; quindi scrollò lo zaino davanti al re. Ne saltarono fuori tre teste.

‘Queste sono le teste dei tre guerrieri figli di Conall, Signore di Annally, che avevano trattenuto il tributo dovuto al Re. Li ho sfidati a duello uno alla volta e li ho uccisi tutti e tre. Stasera, i lamenti delle donne di Annally sono disperati: piangono i migliori fra i loro giovani’.

Ci fu un applauso fragoroso degli ospiti riuniti, e i seguaci di Shumaka battevano i piedi a terra cantando:

‘Shumaka, Shumaka,

Terrore, Terrore, Terrore’.

Il comandante dell’esercito, che sedeva alla destra del Re, dichiarò con fierezza: ‘Chi potrà mai negare che in Shumaka abbiamo trovato l’eroe con cui nessun eroe del nostro passato può rivaleggiare?’.

Zaja si alzò. ‘Io’, disse. Un silenzio teso calò nel salone.

‘Voglio sapere da Shumaka perché è stato necessario uccidere questi tre giovani, i figli di Conall, Signore di Annally. Il Signore di Annally pagherà ora di buon grado il tributo dovuto al Re? No? Non starà invece già preparando la sua vendetta? Certamente sì. Visto che non ha risolto il problema che c’era tra il Re e il Signore – e, anzi, lo ha aggravato – perché Shumaka si compiace della sofferenza delle donne di Annally?’.

Shumaka si voltò verso Zaja pazzo di rabbia. ‘Se questo non conduce a una soluzione, condurrà alla guerra, e all’opportunità di ricoprirci di gloria’.

‘Dov’è la gloria in un massacro senza scopo? Dov’è la soddisfazione nel sentire i lamenti di dolore delle madri? Questa non è gloria. Questo si chiama disonore’.

‘Queste sono solo le parole di un vigliacco, e sono sollevato che a pronunciarle non sia un mio conterraneo. Se tu non fossi protetto dalla benevolenza del Re, ti sfiderei a duello, ma ci incontreremo un’altra volta, se mai imparerai a caricare un arco o a estrarre una spada da un fodero’.

‘Perché darsi pena con una spada o un arco quando si può essere ugualmente efficaci anche con una corda per saltare?’.

Sull’assemblea scese un silenzio assoluto. Tutti sapevano della filastrocca della corda per saltare, né avevano dubbi sul motivo per cui quel bambino fosse morto, ma nessuno aveva mai osato sollevare la questione.

Shumaka rimase ammutolito. Reagire sarebbe stato come ammettere di avere avuto a che fare con quel crimine: così gli voltò le spalle. Zaja però sapeva che da quel momento la sua vita sarebbe stata in pericolo, e lasciò il salone. Shumaka e la banda dei suoi sgherri non potevano lasciare la festa finché non fosse finita, per cui Zaja avrebbe avuto qualche ora per fuggire. E scappò.

Zaja non poteva tornare a casa nel Regno Centrale fino a che non avesse ottenuto la saggezza e sconfitto il Serpente. Così si preparò al suo lungo cammino, questa volta come un pellegrino, cercando uomini saggi, e santi ed eremiti. Nessuno sapeva dargli consigli su come entrare in contatto col Serpente. Su questo argomento gli eremiti, i santi e i saggi erano tutti molto restii a dire alcunché.

Un giorno s’imbatté in un’anziana donna conosciuta come guaritrice e veggente.

Prima che egli parlasse fu in grado di dirgli che era occupato nella Ricerca. Gli disse che aveva ancora molta strada da fare. Quando Zaja fece riferimento al Serpente, la donna non si tirò indietro né piombò nel silenzio come gli altri.

Per tre giorni e tre notti soggiornò nel cottage della vecchia mentre lei raccoglieva le sue erbe e i frutti nella campagna circostante. Zaja non l’assillava poiché sapeva che la veggente stava rimuginando sul suo problema.

‘Devi cercare il Serpente nel sole morente. Per trovare la saggezza devi esplorare i confini, gli interstizi fra un luogo e un altro. Il tuo viaggio non è né verso Ovest né verso Nord, ma verso qualcosa che sta nel mezzo. Il luogo che cerchi non è in terra o nel mare o nell’aria, ma negli spazi intermedi a questi luoghi. Dove il fuoco del sole morente si è estinto, è lì che il Serpente riposa’.

‘Ha un nome questo posto?’.

‘Tireragh, la terra del cacciatore. La troverai se a mezz’estate seguirai il percorso del sole’.

Zaja la ringraziò e riprese il suo cammino nel territorio di mezzo fra ovest e nord.

Si narra che durante il suo viaggio verso nord-ovest Zaja giunse a un lago tra le montagne. Il lago scintillava e brillava nella luce della sera, come un gioiello incastonato nell’arido fianco della montagna. Il giovane, impressionato dalla solitudine e dal silenzio di quel luogo, decise di fermarsi un po’ e di riposarsi dal lungo viaggio. La capanna di un pescatore, lì vicino, gli fece da ricovero.

Accese un fuoco usando la torba che trovò in abbondanza intorno a lui. Quando la notte cominciò a calare, si sedette a rimirare il lago, godendo dell’assoluto silenzio rotto solo da qualche raro belato di pecore e capre sui pendii violacei delle montagne.

Poi sentì, o pensò di aver sentito, un suono diverso. Sembrava la voce di una donna che cantava con un filo di voce.

L’ascoltò attentamente pensando che la sua immaginazione gli stesse giocando uno scherzo. Cosa ancor più sconcertante, il suono pareva provenire dal lago. Per quanto intensamente si sforzasse di guardare attraverso il buio, non fu in grado di localizzare la fonte di quel suono che cresceva sempre di più finché, alla fine, non cessò. Era una melodia dal ritmo ossessivo che continuava a sentire nella sua testa anche mentre cercava di sistemarsi per dormire.

Quando, prima dell’alba, si svegliò, pensò che la melodia appartenesse al suo sogno, ma si rese velocemente conto che la stava ascoltando realmente di nuovo, nel vento. Uscì di corsa e scrutò il lago. Restò di sasso quando individuò qualcosa che sembrava una visione. Una ragazza stava camminando, o correndo, o danzando sulle acque del lago e si avvicinava a un’isoletta che non aveva notato prima. La ragazza cantava. Zaja continuava a stropicciarsi gli occhi per essere sicuro di essere veramente sveglio.

Subito dopo aver mangiato qualcosa per colazione, Zaja si arrampicò sul pendio della montagna più vicina così da poter tenere d’occhio il lago e l’isola. Quando raggiunse una quota che gli rendeva visibile l’intera scena, il sole stava per sorgere. Vedeva movimento sull’isola, ma era troppo lontano per capire se era la ragazza, o se c’erano più persone. Poi la vide arrivare sulla spiaggia e mettersi a camminare sull’acqua. Ancora una volta, sentì appena le note della sua canzone, e ancora una volta la ragazza saltellò sull’acqua come se fosse stata una solida lastra di ghiaccio.

Zaja la guardò con attenzione, e prese mentalmente nota, assumendo a riferimento una roccia grande e singolare, del luogo in cui la ragazza raggiunse la riva dalla parte del lago più lontana da lui. Lei scomparve alla vista non appena toccò terra. Zaja scese velocemente dal fianco della montagna e fece tutto il percorso intorno alla riva del lago fino al luogo dove c’era la roccia. Scrutava la costa alla ricerca di una qualche striscia di terra emersa, ma non trovò segno di niente del genere. Cercò nell’entroterra e vide che c’era un sentiero di montagna che proveniva da quel posto. Così decise di nascondersi dietro la roccia finché la ragazza non fosse riapparsa.

La sua osservazione durò tutta la giornata. Era sera e il sole era basso nel cielo, quando sentì la canzone. Alzando lo sguardo, vide la ragazza, proprio vicino a lui, mentre cominciava a mormorare la sua canzone. Poi all’improvviso si mise a cantare con tutta la sua voce e mosse il primo passo sull’acqua. Era come se la canzone la sollevasse di peso su onde quasi solide. Era come se la gioia di quella melodia la trasformasse in spirito e la trasportasse a destinazione nella sua isola. Era incantevole, come se tutta la grazia degli esseri viventi si fosse concentrata in questo unico essere. Zaja ne fu colpito istantaneamente. La osservava mentre lambiva l’acqua. Quando scomparve ne fu immediatamente avvilito. Cominciò a interrogarsi. Stava per incontrare un giovane sull’isola, ed era quella la gioia che la trasportava?

Quando la ragazza, sull’isola, fu scomparsa alla sua vista, Zaja si arrischiò a muoversi da dietro la roccia, e si mise a perlustrare il luogo dal quale la fanciulla aveva cominciato il suo viaggio sull’acqua. Tentò un passo nell’acqua, e scoprì una pietra; poi spinse il piede a tentoni in avanti e ne scoprì un’altra, e un’altra ancora. Ma non erano in linea retta. Ci salì sopra e si mosse dall’una all’altra; poi, seguendo lo schema che immaginava fosse stabilito, avanzò col piede ma finì in acqua. Provò molte volte, anche aiutandosi con un bastone per trovare le pietre nascoste, ma proprio non riusciva a comprendere il senso logico di quello schema.

Il sole era alto e i suoi vestiti si stavano asciugando mentre sedeva al riparo della roccia. Sentì di nuovo quella canzone e alzò lo sguardo, vedendola tornare indietro sull’acqua. Questa volta l’aspettò senza nascondersi. Lei si muoveva sull’acqua ora in una direzione ora nell’altra, come se i suoi piedi potessero non perforare la striscia della superficie del lago. Quando si fermò sulla terra, all’asciutto, si guardò intorno e lo vide. Cominciò a ridere di lui che stava immobile con i vestiti bagnati.

‘Dunque pensavi di essere in grado di attraversare l’isola così maldestro come sei?’.

‘Sono un pellegrino alla ricerca dell’illuminazione’, rispose Zaja. ‘La mia curiosità è cresciuta ascoltando la tua melodia, e il mio stupore vedendoti attraversare il lago a piedi’.

‘Bene: la tua curiosità e la tua meraviglia devono essersi appagate, ora’.

‘Al contrario: sono ancora più intenzionato ad attraversare l’isola per vedere quale straordinario motivo ti porta lì in un modo così spettacolare’.

“Ti ci vorrà molto tempo per trovare la tua via per l’Isola della Gioia, temo. Ho visto il tuo inutile tentativo di trovare lo schema dei passi’.

‘Allora dimmi qual è lo schema e verrò con te per condividere il piacere dell’isola’.

‘Sei già caduto in un equivoco. L’isola è dedicata alla gioia; non al piacere. Il piacere è l’esperienza primaria del corpo. Un animale può fare l’esperienza del piacere, e la fa. Per farla crescere fino a renderla gioia, devi coinvolgere l’anima, lo spirito’.

‘Portami nella tua isola e insegnami. Sarò un allievo zelante.”

‘Non posso condurti sull’isola. Ciascuno può attraversare il lago solo per proprio conto’.

‘Allora insegnami il codice dei passi. Io ho provato a trovare lo schema ma senza successo’.

‘Ti toccherà usare molto tempo impiegando la tua logica e le tue abilità matematiche, prima di poter mettere piede sull’isola’.

‘Allora dammi la soluzione e attraverserò il lago come te’.

‘La soluzione!’, esclamò ridendo. ‘Come sei bravo a banalizzare e a semplificare le cose... Se vuoi attraversare il lago devi imparare a cantare e a danzare. Ecco: questa è la soluzione’.

‘Insegnami a cantare e a danzare, allora’.

La ragazza lo guardò. Senza dubbio lo giudicava bello. Senza dubbio era commossa dal suo desiderio di apprendere. Senza dubbio si sentiva lusingata dal fervore col quale egli voleva andare sull’isola con lei.

‘T’insegnerò a cantare e a danzare, ma ho solo due settimane per visitare l’isola, e sono già trascorsi quattro giorni. Quindi dovrai imparare velocemente. Devo essere lì quando sorge il sole e di nuovo quando tramonta. Così, al mio ritorno, ogni mattina, ti farò da insegnante. Ma ti devo avvisare che non è consueto per un uomo raggiungere l’isola, e potresti andare incontro a conseguenze avverse’.

‘La mia missione è ricercare la saggezza, e le conseguenze avverse non possono farmi da deterrente’.

‘Molto bene’, disse lei.

Così le lezioni di Zaja ebbero inizio. Prima la danza, fino a quando il suo corpo non si mosse guidato dal ritmo e poi dalla melodia. Poi il canto, fino a quando la sua voce grezza non diventò delicata come il guizzo di una trota nell’acqua scura. Alla fine, l’incrocio e l’intreccio di passi, ritmo e melodia, fino a che il tutto divenne l’uno e l’uno inestricabile dal tutto. La ragazza gli dava lezioni per buona parte del giorno, e per buona parte della notte lui prendeva a pugni le sue gambe, le braccia e il torso fino a quando non si riducevano in totale balia della danza, completamente ostaggio delle richieste della melodia.

Così cominciò a sperimentare il successo del suo risultato, a sentirsi etereo, così leggiadro che poteva essere spazzato via da una semplice brezza come la lanugine di un soffione, a lasciarsi andare di qua e di là, ovunque il capriccio o lo stato d’animo gli indicassero di andare.

Era un allievo di talento, e lei gli insegnò una miriade di passi e canzoni, una tale quantità di canzoni... Ninnenanne che avrebbero ammansito fino al sonno perfino un lupo sul punto di far sua la preda, inni che avrebbero rimesso in movimento il sangue nelle vene di un morto, lamenti che avrebbero fatto scorrere insieme ruscelli di acqua dolce con l’acqua di mare, canzoni d’amore che avrebbero fatto spasimare l’una per l’altra anche le montagne più austere.

La ragazza danzava davanti a lui, e intorno a lui, e attraverso di lui, il suo bellissimo corpo sempre più sensuale, sempre più distaccato, nel ritmo e nella carezza delle melodie e della danza. Lui aveva il desiderio di prenderla, ma lei si sottraeva costantemente a qualsiasi tentativo di intralciare l’intensità crescente del suo volo, del loro volo. Eppure lui percepiva che, ora che le danze erano cominciate, sarebbe tutto culminato in una gloriosa congiunzione.

Infine gli insegnò la melodia, le parole e la danza che lo avrebbero trasportato attraverso il lago sull’Isola della Gioia. La luna di settembre brillava. La festa per l’equinozio d’autunno cominciava con la luna nuova, gli spiegò, e proseguiva fino alla luna piena. Lei era stata scelta e preparata per portare a termine la cerimonia sull’isola, il più importante dei rituali associati alla festa del raccolto.

Zaja era allo stesso tempo apprensivo e impaziente. Accettava l’idea che in quell’impresa si nascondessero pericoli. Ma si dava coraggio, e quando la ragazza, coi suoi piedi leggeri, fece un balzo nel lago, lui le andò dietro. Si abbandonò alla danza, non guardava né a destra né a sinistra, non ammirava lo scenario naturale né lanciava una sola occhiata al corpo pieno di grazia della ragazza. E così raggiunse l’isola. Quando la fanciulla si guardò intorno e lo vide avvicinarsi, il suo viso s’illuminò della luce dell’amore. Lo prese e lo tenne stretto in un tenero abbraccio.

Ma il sole stava per tramontare all’orizzonte e lei aveva doveri da onorare. Lo condusse nella zona più alta dell’isola dove c’era uno spoglio tavolo di roccia. Su questo tavolo c’erano tre grandi pietre tonde, di quelle smussate dal mare. Prima che il sole toccasse terra, lei girò ognuna delle pietre per nove volte da est a ovest, secondo la traiettoria del sole.

‘Perché giri le pietre?’, chiese Zaja.

‘Perché fa parte del rituale per il raccolto. È un gesto simbolico di considerazione e gratitudine al sole che ci dona la vita, il cibo e la luce. È un gesto che simboleggia il nostro rispetto’.

‘E se non lo facessi?’.

‘Porterebbe sfortuna. Potrebbe compromettere il raccolto dell’anno successivo. Le pietre sono chiamate le Pietre della Benedizione. Ma siccome a volte, nelle notti buie della luna nuova, alcune donne malvagie che hanno accesso all’isola rubano e girano le pietre da ovest a est, nel senso inverso a quello del sole, per maledire qualcuno, sono conosciute anche come Pietre della Maledizione’.

‘Penso che la tua benedizione dovrebbe essere abbastanza potente da neutralizzare i malefici di cento donne di quel genere’.

‘Quella di domani è l’ultima mattinata della Festa del raccolto: restiamo qui per questa notte. Sarà davvero di buon auspicio, e la nostra unione creerà un figlio che sarà grande e buono’.

Zaja fu preso da un enorme desiderio per la ragazza, ma si ricordò della sua solenne promessa di non seminare ghiande a meno che non intendesse restare in quel luogo per prendersi cura delle piantine di quercia. Solo allora capì il valore di quella frase. Se si fosse stabilito con la ragazza e avesse allevato figli che sarebbero cresciuti grandi e buoni, avrebbe dato soddisfazione al suo corpo e alla sua anima, ma sapeva bene che il suo destino lo richiamava in un altro luogo. Col cuore pesante, si rivolse a lei.

‘Niente mi darebbe più gioia che unirmi a te e allevare tanti figli. Ma sono obbligato a seguire la mia missione e a rispettare il divieto di far dimora dovunque sia fino a quando la mia missione non sarà completata. Domattina devo rimettermi in viaggio. Per quanto io sia attratto dalla prospettiva di unirmi a te, di vivere con te, e di invecchiare con te, è mio dovere non piantare semi a meno che non sia pronto a restare e a prendermi cura delle piantine’.

‘Allora mi hai tratto in inganno, oppure ho frainteso il tuo desiderio di venire sull’isola. E questo può portare a conseguenze disastrose sia per te sia per me’.

“Non voglio assolutamente che ti accada niente di brutto. Ma sono pronto ad accettare qualsiasi disgrazia si abbatta su di me’.

‘Questo non può accadere a meno che non sia io a pronunciare una maledizione su di te. E anche se mi hai respinta, non ho intenzione di maledirti’.

‘Allora pronuncia la tua maledizione contro di me, ti prego. Mi farò carico delle conseguenze di buon grado, sapendo che non ti ho provocato alcun danno’.

‘Senza dubbio mi darai molto dolore, perché in questi ultimi giorni ti ho dato il mio cuore. Il mio cuore soffrirà molto nel pronunciare malefici su di te’.

‘Ma lo devi fare. Avanti, fallo’.

La donna andò al tavolo con le tre pietre, e le girò ciascuna per nove volte da ovest a est, nel senso inverso alla direzione del sole.

‘Ora, dimmi qual è la mia maledizione’, chiese Zaja.

‘Non genererai mai un figlio maschio’, rispose la ragazza con una grande tristezza.

‘Che sia’, disse Zaja. E si girò per attraversare all’indietro il lago a passo di danza.

Procedendo verso nord-ovest, Zaja seguì il sole che stava tramontando. In qualità di pellegrino, in cerca della conoscenza, trovava aiuto ovunque andasse. E riceveva indicazioni. Le persone sapevano di Tireragh, la terra del cacciatore, la terra tra le montagne e il mare, anche se non c’erano mai state. Era un posto in cui il perseguimento della conoscenza era un’occupazione quotidiana – dicevano – come la gestione di una fattoria, la pesca, o la conservazione dei cibi per l’inverno.

Seguiva le indicazioni che gli davano. Passò la Roccia del Sacrificio e la Roccia Tremante. Seguì il sentiero attraverso la valle della montagna, oltre il Lago dei Pesci, oltre il Capanno dei Cacciatori che sorvegliavano il sentiero. E a quel punto stava guardando in basso verso una pianura stretta. Oltre la pianura si estendeva il mare infinito; al di sopra la grande volta delle nuvole incorporee: Zaja capì che era giunto a destinazione: questo era l’ultimo confine tra cielo, mare, e monti, dove il sole stesso immergeva il suo ardente calore.

Zaja incontrò alcuni pastori e li mise a conoscenza della sua ricerca della conoscenza. Essi lo indirizzarono a ciò che chiamarono il Castello di Lecan, che riuscirono a indicargli in lontananza: era la sede di una celebre dinastia di studiosi.

Quando raggiunse quel luogo, Zaja scoprì che non era un castello fortificato, ma piuttosto una grande casa circondata da decine di piccole capanne. Fu accolto con calda gentilezza e quando rese loro noto di essere in cerca della conoscenza, si vide assegnare un comodo alloggio in una delle capanne.

Il villaggio di capanne che circondava il castello era un luogo straordinario. Alcuni erano giovani studenti come lui; altri erano già esperti di varie arti, insegnanti di legge e storia, scrivani e rilegatori di libri, poeti e narratori. In mezzo, c’erano gli artigiani, lì per perfezionarsi nelle arti che avevano scelto. Tra loro vivevano anche i contadini, i fornai, i cuochi, e tutta la grande varietà di artigiani che fornivano i servizi necessari a sostenere l’impresa della comunità.

Alcuni studenti che venivano mandati qui arrivavano con borse piene di monete d’oro per pagare la loro formazione. Zaja non aveva altro che i vestiti che indossava, così si offrì di lavorare con gli artigiani, con gli esperti, con chiunque avesse bisogno di aiuto. E in questo modo imparò nuove abilità, a completamento di quelle di cui era già perfettamente esperto. Si specializzò nelle arti della calligrafia, della poesia, della narrazione. Apprese le lingue antiche. Imparò la storia e le genealogie di tutte le antiche famiglie.

A dirigere questa grande scuola era la famiglia Mac Firbis. Da più di mille anni, di padre in figlio, avevano perpetuato le tradizioni, tramandato la conoscenza e, stranamente, il talento da una generazione all’altra.

Zaja era molto contento di essere arrivato in questo posto meraviglioso e ci si stabilì per tre anni.

Zaja trascorse tre anni al Castello di Lecan, tre anni splendidi, tra gli studiosi e gli studenti. Benché con riluttanza, alla fine del terzo anno decise che era il momento di andarsene. Chiese udienza al capofamiglia, il Signor Mac Firbis, così da metterlo a conoscenza delle sue intenzioni, esprimergli la sua gratitudine e dirgli addio.

Fu mandato nella stanza più alta del Palazzo, conosciuta come la Stanza del Libro. Quando entrò, si fermò dietro la porta. Era la prima volta che vedeva questa stanza. Solo i membri della famiglia, di solito, ci lavoravano. C’erano quattro scrivanie, ciascuna addossata a una parete, e su ognuna era disposta tutta la gamma degli accessori da scrivano. C’erano parecchie presse di legno che bloccavano tomi rilegati in pelle: i libri ultimati.

A una scrivania, spalle a Zaja, sedeva Mac Firbis. Non si era alzato per ricevere il giovane. Non aveva fatto nemmeno un movimento.

Zaja fece qualche passo di lato per entrare nel campo visivo del vecchio studioso, e quando riuscì a vederne di sfuggita il volto, si rese conto che era immerso nei pensieri, così immerso che non s’era certamente accorto del suo arrivo. I palmi delle sue mani erano poggiati sulla scrivania; in mezzo, c’era un libro chiuso.

Zaja fece ancora qualche passo e si accorse che il vecchio aveva gli occhi aperti e concentrati sul libro. Lo studioso si girò lentamente verso di lui, come se strapparsi alla sua meditazione per dedicarsi al giovane richiedesse un grande sforzo.

‘Sono qui per prendere congedo, Professore’.

‘Così presto, giovanotto?’.

‘Potrei trascorrere qui tutta la vita, in stato di perfetta felicità, ma ho dei doveri. In fondo al cuore, so che il mio destino è altrove, un destino al quale non posso sottrarmi’.

‘È giusto che tu segua le tue inclinazioni più profonde. Sei stato uno studente capace di grande dedizione. Ti auguro ogni bene per il tuo viaggio, ovunque ti porti. Ti senti di dire che il tuo tempo qui è stato ben speso?’.

‘Sì, ogni ora di ogni giorno ho appreso qualcosa di nuovo e acquisito nuove competenze. È stato sublime essere circondato da insegnanti che gioivano nel diffondere il seme della loro conoscenza, ed essere circondato da studenti profondamente felici di serbare il ricco raccolto di quel pensiero’.

‘Hai qualche rimpianto?’.

‘Sì: il fatto di dover partire prima di aver avuto la possibilità di addentrarmi in profondità nelle più ricche fonti di saggezza’. Gli occhi del giovane si soffermarono malinconicamente sui tomi che erano sistemati con cura per tutta la stanza, e anche sul libro che stava sulla scrivania del vecchio.

Lo studioso sorrise. ‘Certo: i libri. Ma i libri possono essere fraintesi e sopravvalutati. Durante i tuoi viaggi devi aver notato che la saggezza non è appannaggio esclusivo del letterato, che la capacità di lettura e scrittura non conferisce necessariamente saggezza agli ottusi. Sì, i libri sono giacimenti dei nostri pensieri più elevati, ma sono solo questo: recipienti. E non vanno confusi con ciò che contengono. Temo molto che se noi facciamo affidamento sui libri per custodire le nostre idee, possiamo correre il rischio di lasciare vuote le nostre teste’.

‘Parole strane, dette da chi ha trascorso la propria vita compilando libri. È per questo che li tieni sotto chiave?’.

‘Non sono sotto chiave’, disse il vecchio sorridendo. ‘Sono solo difficili da raggiungere, forse. Tutto ciò che si trova nei libri dovrebbe essere già nella nostra testa e, se è così, non dovrebbe essere necessario consultarli’.

‘Naturalmente sarebbe più semplice per gli uomini consultare i libri anziché avere in mente tutto ciò che essi custodiscono’.

‘Più semplice, sì: questo è ciò di cui ci preoccupiamo. E se ci adagiamo sulle cose semplici, non è che le nostre menti diventano più pigre? Non è che perdiamo la capacità di assorbire la conoscenza, di conservarla e riportarla alla memoria? I libri potrebbero essere controproducenti se facciamo troppo affidamento su di loro. Se per camminare ci appoggiamo ai bastoni senza averne bisogno, possiamo perdere la facoltà di procedere senza aiuti. I libri possono metterci in movimento, ma anche paralizzarci. Immagina che un uomo arrivi qui da lontano e racconti una storia meravigliosa passata di bocca in bocca attraverso un centinaio di generazioni. Se noi la trascriviamo e rendiamo la trascrizione disponibile a chiunque, da quel momento la storia è congelata; smette di modificarsi, di crescere, di svilupparsi. Non è più una cosa viva, filtrata dall’intelligenza e dall’immaginazione della gente. In un certo senso, quella è ora una storia morta. L’abbiamo uccisa trascrivendola. È come una farfalla custodita nella scatolina di un collezionista. Quello che facciamo qui, quindi, è trascrivere; ma teniamo la trascrizione fuori dalla portata delle persone, di modo che la storia continua a passare dalla bocca di qualcuno alle orecchie di qualcun altro, continua a essere creata daccapo ogni volta che la si racconta’.

‘Tu sminuisci la mistica dei libri, e tuttavia quando sono entrato qui ho avuto l’impressione che fossi quasi inchinato in adorazione davanti a quel libro’.

Il vecchio rise. ‘Posso essermi perso nella meditazione. Posso essere stato trasportato, nonostante tutto ciò che ho detto, dalla meraviglia della parola scritta. Ma “adorazione” è non solo una parola impropria, ma anche un concetto pericoloso’.

‘Si dice che i nostri antenati adorassero il Serpente. La mia Ricerca della conoscenza mi obbliga ad andare avanti finché non avrò sconfitto il Serpente’.

‘La guida che ti ha assegnato questa Ricerca ti ha mandato a compiere un lungo viaggio’. L’anziano riusciva a malapena a mascherare il suo divertimento. ‘Sei sicuro che volesse il tuo ritorno?’.

‘Perché avrebbe dovuto volere che io stessi via da casa? Ho dato per scontato che la difficoltà del compito fosse proporzionata alla mia abilità e al mio bisogno di apprendere, e per questo io gli sono grato. Nondimeno, sono determinato a completare il mio compito e a tornare a casa. Puoi darmi qualche suggerimento?’.

‘Certamente ti consiglierei di non continuare a cercare un serpente o il Serpente, oppure non vedrai più la tua casa. Devi imparare a pensare in maniera diversa, a percepire il significato nascosto dietro i significati, a trar fuori le sfumature dalle parole. Considera la parola “sconfiggere”, per esempio. Che cosa vuol dire? Cosa implica? Sbarazzarti di tutto ciò che ti fa paura? Sbarazzarti della paura che essa ti incute?’.

‘Capisco. Se acquisisco la saggezza, allora mi posso liberare dalla paura’.

‘Non hai bisogno di saggezza: solo di conoscenza. Puoi acquisire la conoscenza, ma mai la saggezza. Devi accontentarti di cogliere la saggezza attraverso le fessure e i confini della conoscenza; prova a trattenerla, ed essa rifluirà in fuga all’indietro attraverso quelle stesse fessure, e le fessure si chiuderanno’.

‘Ma cos’è il Serpente? E come faccio a incontrarlo?’.

Il vecchio tirò giù un libro e l’appoggiò aperto sul suo tavolo. ‘Guarda. Cosa vedi?’.

‘Un serpente avvolto su se stesso’.

‘E cosa vuol dire?’.

‘I nostri antenati adoravano il Serpente, prima di essere illuminati dalla consapevolezza che esisteva un essere superiore’.

‘Di nuovo quella parola: “adoravano”. Una parola che serve a seminare terrore nell’animo fragile. Che cosa succederebbe se il serpente e l’essere superiore fossero una cosa sola?’.

“Sarebbe difficile accettare quest’identificazione, in questo momento storico’.

“Non lo sarebbe se rimuovessi il terrore dalle parole. Non lo sarebbe se interpretassi i simboli. Guarda ancora l’immagine. Cosa vedi?’.

‘Vedo un serpente avvolto su se stesso che sta divorando la propria coda’.

‘E questo cosa rappresenta?’.

‘L’eterno, così come il cerchio’.

‘Sei uno dalla spiegazione pronta. Dimentica le tue spiegazioni pronte, e guarda di nuovo. E se il serpente non si stesse divorando, ma sbocciando dalla propria bocca? E se stesse insufflando in sé stesso l’alito di vita?’.

Zaja guardò di nuovo. ‘Sì, devo ammettere che l’immagine potrebbe rappresentare quel che dici. Quindi, sta creando sé stesso, invece che divorandosi da solo?’.

‘E se stesse facendo entrambe le cose? E se si stesse creando e distruggendo, nello stesso tempo e per l’eternità?’.

‘Ora mi stai confondendo’.

‘La confusione non è una condizione da disprezzare. È il primo passo verso la comprensione. La creazione eterna potrebbe essere un problema – non credi? – senza una distruzione eterna, così come lo sarebbe la distruzione senza una creazione compensatrice. Quindi, ciò che vediamo rappresentato in questa semplice immagine è il grande spirito dell’universo perpetuamente in crescita, perpetuamente in decomposizione, prepetuamente in creazione e perpetuamente in distruzione. Il Serpente non è così spaventoso quando lo vedi in questo modo: vero? E non nemmeno è così lontano da qualsiasi altra rappresentazione dell’essere superiore’.

‘Mi sento finalmente vicino alla conclusione della mia Ricerca. Come posso saperne di più ed entrare in contatto col Serpente?’.

‘La conoscenza sconfigge. Sradica il terrore che è stato piantato nelle parole. Mette le redini ai cavalli selvaggi dell’immaginazione. Tempra il metallo dell’animo. Ma la conoscenza non è la saggezza. Impara a discriminare. La saggezza arriva quando si riesce a convivere felicemente con le contraddizioni di cui la conoscenza ha orrore. Se davvero desideri sconfiggere il terrore e accogliere il Serpente, dovresti trascorrere un po’ di tempo con il Santo’.

‘Chi è il Santo?’.

‘Alcuni lo chiamano il Santo, altri lo chiamano il Druido. A lui non importa. Gli va bene convivere con contraddizioni di questo genere. Vive in mezzo alle crepe e le trincee che separano la conoscenza, là dove la saggezza riesce a fare breccia. Da lui potrai certamente capire di più sul Serpente’.

Zaja ringraziò il vecchio studioso e prese definitivamente congedo dalla comunità degli studenti che gravitava intorno al Castello di Lecan. Quando essi seppero che partiva alla ricerca del Santo lo presero in giro dicendogli che doveva partire di pomeriggio, perché se fosse partito di mattina avrebbe trovato il Druido, al suo posto.

Zaja seguì le indicazioni verso il piccolo bosco chiamato la Tinozza. Prese la strada alberata in discesa. Bagliori di luce argentata segnalavano il corso del fiume, in basso. Il morbido manto dei noccioli verdi, il silenzio spezzato solo dalla lontana ninnananna della cascata d’acqua, la separatezza da tutti i villaggi e gli insediamenti umani, suggerivano che il luogo fosse speciale. Non fu una sorpresa, quindi, sentire dalla gente che questo bosco era sacro fin dall’origine dei tempi.

Quando raggiunse il letto del fiume seguì il corso della corrente fino a quando non arrivò alla cascata. Lì, inginocchiato davanti alla cascata, c’era la persona che stava cercando, colui a cui tutti facevano riferimento chiamandolo il Santo. Non era il santo originale: piuttosto, colui al quale in quel momento apparteneva un titolo che si trasmetteva dall’uno all’altro degli eremiti che avevano scelto di prender dimora in questo bosco sacro.

Zaja si fermò a osservarlo. Sotto la cascata c’era un lago, scuro e profondo, nel quale si riversava l’acqua: la “tinozza” che aveva dato nome all’intero boschetto. Il Santo era in ginocchio con le mani protese in avanti, come se l’acqua si stesse raccogliendo nel suo grembo anziché nel lago che era intagliato nella dura roccia. Zaja era restio a disturbare la sua meditazione. Alla fine, il vecchio calò le mani nel laghetto, ne prese dell’acqua e si bagnò il viso. Si alzò in piedi con fatica e cominciò a guardarsi intorno come se si fosse appena svegliato. I suoi occhi si poggiarono su Zaja, in piedi nella corrente.

‘Chi stai cercando?’, gli chiese.

‘Te’, rispose il giovane.

‘E allora, cosa stai cercando?’.

‘La saggezza’.

Il Santo rise. Rise fino a che i boccioli sugli alberi di nocciole non si misero a danzare allegramente.

‘Ti posso dare cibo e, se ti serve, un letto per la notte. Ma la saggezza la devi trovare per conto tuo’.

‘Ho viaggiato a lungo. Ho imparato molte cose. E sono condannato a non tornare a casa fino a quando non avrò sconfitto il Serpente. Penso che tu potresti aiutarmi nel mio viaggio’.

‘Il viaggio alla ricerca della saggezza è circolare: di solito riconduce al luogo di partenza. E quest’affermazione auto-evidente già di per sé giustifica l’interrogativo sull’effettiva necessità di questo viaggio’.

‘Sono obbligato a ricercare la saggezza dalla mia Ricerca. E sono costretto a non tornare a casa fino a quando non avrò sconfitto il Serpente, qualunque cosa questo significhi’.

‘Oh, ti hanno proprio mandato via per un lungo viaggio. Molto bene. Benvenuto alla Tinozza. Adesso mangeremo. La saggezza ha un gusto migliore se si accompagna al pane e a un pochino di sale’. E il Santo fece strada, ridacchiando fra sé e sé.

Arrivarono a una capanna fatta di tronchi di quercia, con il tetto di paglia recentemente rimesso a nuovo. Dentro, Zaja notò che la capanna era provvista di tutto lo stretto necessario. Il Santo gli fece segno di sedersi a tavola mentre rovistava in un contenitore e preparava cibo sufficiente per entrambi.

“Ti starai chiedendo: “Non ha né seminato né raccolto: quindi da dove provengono il suo cibo e tutte le cose necessarie per vivere?”. Giusto?’.

‘Il pensiero mi ha sfiorato, sì’.

‘Questo boschetto appartiene alla gente, e non a me. La mia presenza qui li fa sentire sicuri, ecco tutto. Arrivano in certi periodi per festeggiare, per esprimere il loro senso di meraviglia verso l’ignoto. Io non sono altro che il custode del boschetto, e per questa mia dedizione mi offrono il necessario per sopravvivere’.

‘È giusto che aiutino un uomo santo’.

‘È giusto che provvedano anche a me, perché altrimenti non avremmo di che mangiare’. E rise di cuore per la sua battuta.

‘Dicono che sei un druido al mattino e un santo nel pomeriggio. Che cosa intendono dire?’.

‘Perché non lo hai domandato a chi te l’ha detto? Se non capisci un’affermazione metti alla prova chi sta parlando. Questo è il modo per ottenere una conoscenza puntuale, e se non riesci ad ottenere una conoscenza puntuale come pretendi di conquistare la saggezza?’.

‘Ho messo alla prova chi ha parlato’.

‘E cos’hanno detto?’.

‘Hanno detto che diventi cieco tutte le mattine quando adori il sole nascente. Ma che recuperi la tua vista durante il giorno quando bagni gli occhi con l’acqua del lago benedetto’.

‘Come sempre, la loro osservazione è accurata; e, come sempre, la loro comprensione è limitata’.

‘Voglio stare con te finché non ho guadagnato capacità di analisi. Sento che, alla fine, qui porterò a termine la mia Ricerca’.

‘Puoi restare quanto vuoi, e ti darò tutte le indicazioni che posso. Ma la saggezza non può essere trasmessa. Essa non può essere suddivisa in parti e comunicata come l’informazione o la conoscenza. La otterrai quando avrai riflettuto sulla conoscenza, sull’esperienza e sulla vita. Ma sappi che non andrai via di qua con la testa colma di saggezza’.

“Mac Firbis diceva che la saggezza può essere intravvista solo attraverso le fessure della conoscenza’.

‘Ben detto. Anche attraverso le ferite dell’esperienza. E un’altra cosa: una ricerca è una ricerca. Per definizione non finisce mai. Riflettici’. E il Santo rise allegramente mentre cominciava a riordinare una stanzetta per il visitatore.

‘Le persone sono terrorizzate da ciò che conoscono, ma anche da ciò che non conoscono’, spiegò il Santo. ‘La soluzione potrebbe sembrare eliminare la paura dalla mente delle persone. Ma la paura è ciò che le protegge dal pericolo. Garantisce che evitino i rischi. Esorta a difendere l’inesperto. Incoraggia a scendere dal letto la mattina per fare provviste per contrastare la penuria di cibo invernale’.

‘Se le persone comprendessero cos’è il Serpente’, continuò, ‘il Serpente diventerebbe docile come un cagnolino o un gattino. Ma a quel punto inventerebbero qualcos’altro che induca terrore. Dei e diavoli sono stati inventati entrambi per motivi di necessità. Quindi annientare gli dei e sbaragliare i diavoli sono esercizi inutili. Meglio lasciare alla gente gli dei e i diavoli con cui si trovano a loro agio. Meglio insegnare loro come si può accettare il terrore come una cosa naturale, e come conviverci’.

‘La ricerca della saggezza è una ricerca senza fine’, spiegò il Santo al suo attento e zelante discepolo Zaja. ‘Chiunque ti abbia dato questo incarico era o molto saggio o molto insensato. Oppure, magari, sperava che tu non ritornassi, o desiderava che ritornassi come un uomo di talento. Qualunque cosa fosse, non importa. La verità è che tu sei l’unico in grado di decidere quando hai raggiunto la saggezza, e quindi sei l’unico in grado di decidere quando sei pronto a tornare’.

‘La saggezza arriva come un raro e spesso inatteso raggio di sole attraverso il cielo nuvoloso’, spiegò il Santo. ‘Naturalmente, se non stai guardando le nuvole te ne perderai l’istante. Pensa alle nuvole come all’intero artificio della conoscenza: e comprendi, dunque, che esso rappresenta un grande velo che nasconde la verità. La verità ci si nasconde dietro: pura, incontaminata e inviolabile. Ma se siamo osservatori del cielo vigili e attenti, saremo benedetti da uno raggio improvviso che squarcia le nuvole, e questo è quanto siamo in grado di captare, esseri limitati quali siamo’.

‘Questa è l’origine del Serpente’, disse il Santo raccogliendo un bastoncino e disegnando una linea retta nel fango. Sopra disegnò una serie di semicerchi, uno all’interno dell’altro, ciascuno più piccolo del precedente. ‘Se osservi il ciclo del sole che si alza sull’orizzonte, taglia il cielo in diagonale e tramonta all’orizzonte, dall’estate all’inverno, vedi che assomiglia a questo. Ogni giorno sorge un po’ più in basso e cala un po’ più in basso’, e muoveva il bastoncino sui semicerchi sempre più piccoli. ‘Ora, se disegniamo il percorso immaginario del sole durante la notte dal tramonto all’aurora, esso assomiglierebbe proprio a questo’. E disegnò un’altra serie di semicerchi al di sotto della linea dell’orizzonte, ciascuno dei quali finiva per ricongiugersi con uno di quelli che c’erano al di sopra.

‘Ora cosa vedi?’.

‘Una spirale’, rispose Zaja.

“Sì, e anche un motivo decorativo che è stato intagliato nelle pietre rituali per migliaia di anni. Ora, se guardi quest’immagine abbastanza a lungo, a cosa potresti associarla?’.

‘A un serpente avvolto a spirale’.

‘E questo è il motivo per cui la spirale, e il Serpente e il sole si sono fusi in un unico simbolo per soddisfare l’immaginazione dei nostri antenati. Il Sole è il Serpente fiammeggiante, o il Dragone, che si attorciglia intorno alla terra ora donandole calore e vita, ora distruggendo la vita con uguale intensità. E ora dimmi se questo non è un modo tanto sofisticato di visualizzare la grande anima creatrice e distruttrice dell’universo quanto inventare l’esistenza di un grande papà in cielo, o di gruppo di dei in guerra’.

‘La mattina tu saluti il sole che sorge?’.

‘Sì, ma non in servile adorazione, come credono alcuni. Piuttosto, lo faccio per esprimere la mia meraviglia per l’incredibile bellezza del mondo in cui viviamo’.

‘Posso unirmi a te la mattina?’.

‘Sì. Ma c’è un rituale che deve essere portato a termine prima che il sole sorga; per cui dovrai alzarti presto e sottoporti a una rigida preparazione’.

Ben prima dell’alba, quando c’era luce appena sufficiente a illuminare il sentiero attraverso gli alberi, il Santo fece strada. Erano digiuni, scalzi e a gambe nude. In cima al monticello – un gigantesco cumulo di pietre – si misero in ginocchio. Camminando sulle ginocchia, girarono tre volte intorno al cumulo, poi deviarono lungo il sentiero roccioso che scendeva al fiume. Procedettero paralleli al letto del fiume, avanzando con cautela sulla roccia appuntita. Quando raggiunsero la fine di un sentiero sull’altra riva, salirono e lo seguirono lungo una scogliera, poi di nuovo giù fino al letto del fiume.

Prima di cominciare la scalata per raggiungere il punto di partenza, il Santo raccolse una pietra dal letto del fiume e invitò Zaja con un cenno a fare lo stesso. Quando raggiunsero di nuovo il monticello il Santo lanciò la sua pietra sul cumulo e Zaja seguì il suo esempio. Stavano rimettendosi in piedi proprio mentre una luce forte cominciava a superare la linea dell’orizzonte.

Il Santo stava in piedi in cima al mucchio di pietre e stava di fronte al sole nascente con le braccia tese a formare una croce. Zaja stava in piedi lì accanto, guardando sia il Santo sia l’alba.

Il Santo era in piedi con lo sguardo fisso verso il sole finché il sole non superò del tutto l’orizzonte. Poi abbassò le braccia. A Zaja risultò evidente che fosse abbagliato se non accecato da quell’impresa.

‘Esiste al mondo una manifestazione dello spirito d’amore più grande del quotidiano sorgere del sole, che ci porta luce e calore, dandoci ogni giorno, misericordioso, il dono della vita?’.

Zaja non rispose, perché era profondamente commosso dalla bellezza del momento. La difficoltà del rituale che aveva seguito gli aveva affilato i sensi. Il dolore causato dai tagli e dai lividi sulle gambe si trasformò, elevandosi, nell’acuita percezione di ciascuna foglia del boschetto, così come del mare laggiù, e del cielo là in alto, degli uccelli che si animavano fra gli alberi per dare il benvenuto al nuovo giorno, degli animali che si alzavano dopo il sonno per andare in cerca di cibo. Non disse una parola, perché era sopraffatto da quest’acuita percezione della vita in qualunque cosa.

Il Santo oltrepassò Zaja con passo malfermo e s’incamminò sul sentiero che portava giù al fiume. Era chiaro che non poteva vedere, ma era in grado di trovare la via grazie alla familiarità con il boschetto. Zaja lo seguì. Quando raggiunse il letto del fiume, seguì la corrente in senso contrario finché non si fermò sotto la cascata, nel punto in cui Zaja lo aveva visto per la prima volta. S’inginocchiò verso la Tinozza e affondò la mano in acqua, e ne prese un po’ per lavarsi gli occhi.

‘L’altro grande miracolo della terra’, disse, ‘è l’acqua. Pensa a come l’acqua scorre incessantemente cercando la via per il mare, per risalire poi sotto forma di vapore, essere respirata e nutrire sulla terra tutto ciò che cresce. Non dirmi che sto adorando l’acqua quando mi inginocchio qui incantato da questo fenomeno. Se esiste uno spirito dell’universo, allora è anche qui che si manifesta’.

‘C’è chi sostiene che tutte queste cose si comportano secondo le leggi di un Creatore’.

‘L’acqua non obbedisce ad alcuna legge. Se così fosse, allora il ghiaccio non galleggerebbe. Il fiume congelerebbe in inverno da cima a fondo e ucciderebbe i pesci e ogni altra cosa che vive sotto la superficie’.

La vista del Santo era tornata: si guardò intorno, guardò Zaja che se ne stava immobile, come in trance. ‘Forza’, disse. ‘Abbiamo reso il nostro omaggio. Ora andiamo a fare colazione’.

Si narra che un giorno, quando Zaja viveva ancora con il Santo, un passero spaventato volò nel bosco e si riparò tra le sue braccia. Il giovane fu distratto dalla sua meditazione sulla cascata dell’acqua. Accarezzò le piume arruffate dell’uccello, profondamente agitato, e gli chiese quale fosse la causa del suo terrore.

Il passero rispose che stava fuggendo dal falco che volteggiava in alto, deciso a ucciderlo. Zaja alzò gli occhi e vide il falco, artigli in fuori, in attesa di piombare sulla preda. Allargò le braccia per proteggere l’uccellino.

‘Non aver paura,’ gli disse , ‘ti farò da scudo a costo della mia stessa vita’.

Quando il falco vide e sentì quello che stava succedendo volò giù e si poggiò su un ramo davanti al giovane.

‘Questo non è giusto’, si lamentò. ‘Quel passerotto è il mio pasto per oggi. Se non mangio, non ho la forza per sopravvivere, per procreare e per nutrire i miei piccoli. Non hai il diritto di interferire con il corso della natura. Se quell’uccello fosse sul punto di mangiare un verme, avresti avuto la stessa pietà e impedito al passero di mangiarlo?’.

‘Mi rendo conto dei tuoi bisogni’, rispose Zaja, ‘ma non hai nessuna pietà per la tua preda?’.

‘Come posso permettermi di avere pietà per la mia preda, se devo ucciderla? Vuoi che smetta di uccidere, e muoia di fame?’.

‘Ti darò da mangiare del mais, tanto grano dorato quanto ne vuoi; solo, risparmia la vita di questo passerotto’, rispose Zaja.

‘E non c’è vita anche in ogni chicco di grano? In ogni caso non posso mangiare mais più di quanto tu possa sostentarti con l’erba. Io posso mangiare solo carne’.

Zaja era frastornato. Era commosso dalle parole del falco e solidarizzava veramente con lui.

‘Non so risolvere il tuo dilemma’, disse. ‘Ma ho giurato di proteggere questo passerotto a costo della mia vita, se necessario. Quindi, se hai bisogno di carne per sopravvivere, ti prego di prendere la mia’.

Zaja si tolse i vestiti e offrì il petto e le braccia al falco.

‘Come vuoi’, disse il falco. ‘Sono i miei bisogni ciò a cui devo ossequio’. E volò sulla spalla del giovane e cominciò a strappare la morbida carne dal petto.

Avrebbe continuato a mangiare la carne del giovane fino alle ossa, e aveva stabilito di strapparne il cuore per portarlo come cibo per i suoi piccoli. Zaja glielo avrebbe permesso senza batter ciglio. Ma il Santo, che stava guardando da lontano, si intromise.

‘Fratello falco, basta’, disse. ‘Basta. La tua vera preda non è questo giovane, e dovresti rispettare la pietà che ha dimostrato per il passero indifeso. Sei certamente spinto dai tuoi bisogni, e hai la responsabilità di provvedere a te stesso e ai tuoi figli. Ma uccidere questo giovane lascerebbe il mondo impoverito in un modo che la tua sopravvivenza non compenserebbe mai’.

‘Ah, sì’, disse il falco. ‘La solita storia. La vita umana è sacra; la vita di un uccello o di un animale è superflua’.

‘Non è vero’, disse l’eremita. ‘La vita è sacra in sé. E tutti gli esseri devono per istinto andare alla ricerca di cibo per sopravvivere. Ma l'azione di questo giovane trascende gli imperativi del mondo naturale. Come dici tu, è un atto contro natura, irragionevole, illogico, ma è anche un atto di altissimo livello perché è ispirato dall’amore. L’amore della preda per il cacciatore non ha senso, ma cosa può esserci di più difficile o più nobile? Per questo motivo dovresti rispettare il suo gesto. Tu stesso non dovresti essere insensibile ai sentimenti più nobili. Tuttavia, capisco che c’è un accordo e puoi rivendicare di aver pieno titolo a fare quel che fai’.

Il falco guardò il giovane: aveva gli occhi chiusi, il volto fisso in un’espressione di sopportazione, il sangue che gli colava sul petto e sulle piume dell’uccellino che ancora cullava tra le braccia. E il falco provò pietà, e provò vergogna. Si alzò in volo con ali pesanti e se ne andò dal boschetto. Il Santo prese il passero dalle braccia di Zaja e lo lasciò volare tra gli alberi. Ma, benché la paura fosse finita, non si allontanò dal boschetto. Il Santo portò Zaja al laghetto sotto la cascata e gli disse di bagnarsi le ferite. Non appena lo fece, le ferite guarirono.

Ogni sera dopo cena il Santo accendeva la torcia nella capanna e prendeva una serie di piccole immagini che aveva. Le metteva a faccia in giù sul tavolo, le mischiava, le disponeva dando loro una forma o uno schema, poi le girava. Per molto tempo, ogni sera fissava questa disposizione delle immagini in profonda meditazione.

‘Che cosa vedi nelle immagini?’, gli chiese Zaja.

‘Tutto e niente’.

‘Passi troppo tempo a guardarle, per non vedere niente’, rise Zaja.

‘Questo non vuol dire che vedo tutto. Mi aiutano a pensare, a concentrarmi profondamente’.

‘Gira voce che nelle immagini tu prevedi il futuro’.

‘Le voci non costano niente, te le tirano dietro. È la gente che crea il suo futuro’.

‘Come fanno le immagini ad aiutarti a pensare?’.

‘C’è un elemento di verità in quel che dice la gente. Naturalmente nessuno può prevedere il futuro nel senso di prevedere quali eventi accadranno. Ma i semi del futuro giacciono nel presente. Lì c’è tutto quello che concorre al verificarsi di qualunque risultato futuro. Riconoscere nel presente ciò che potrà accadere è possibile. Se ciò che esiste in potenza si realizza o no dipende dalle circostanze. Identificare il seme non dà alcuna garanzia sulla qualità della rosa al momento della piena fioritura’.

‘Puoi individuare i semi del mio futuro?’.

‘Io non ti consiglio un pronostico del genere. È pericoloso. Quando qualcuno fa questo tipo di richiesta, generalmente spera in una buona previsione. Ma la fortuna o il caso non si possono predire, per definizione. Il successo si ottiene con la fatica e con l’uso creativo delle opportunità. Non ho bisogno di guardare le immagini per dire questo a qualcuno’.

‘Ho sempre avuto la percezione di avere un destino’, disse Zaja, “come se avessi un ruolo da svolgere, come se ci fosse uno scopo prefissato nella mia vita al quale non devo sottrarmi. Se sono destinato alla felicità o alla sofferenza non saprei, ma non m’importa. La cosa fondamentale è che nella vita io sia fedele alla mia missione. Forse mi puoi aiutare a capire qual è la mia missione’.

Il Santo ci pensò un po’, poi distribuì le immagini, le mischiò, e le dispose a forma di croce prima di girarle.

‘Perché a forma di croce?’, chiese Zaja.

‘La croce e il cerchio sono un’unica cosa. La più potente di tutte le forme, in quanto rappresenta il ciclo del sole, il ciclo dell'acqua, il ciclo delle stagioni, il ciclo della vita stessa’.

Zaja non lo interruppe di nuovo mentre meditava sulle immagini. Alla fine il Santo parlò.

‘Hai imparato molto. Abbastanza da considerare completa la tua Ricerca. La tua missione nella vita è insegnare. Di questo hai già una percezione, e hai bisogno di ben pochi chiarimenti da parte mia. Ci sono due enormi possibilità nella tua vita; una è un’enorme felicità, l’altra un’enorme sofferenza. Ma non sono alternative. L’una implica l’altra. La sofferenza è immensa, poiché mette alla prova tutto quello che hai di più caro e tutto quello che hai insegnato’.

‘Grazie. Sapere che la mia missione è insegnare mi dà forza’.

‘L’insegnamento è una cosa. Esser messo alla prova fino allo stremo sulla tua dedizione a ciò che hai insegnato è un’altra cosa. E io sottolineo che se seguirai il tuo destino sarai provato fino all’estremo’.

‘Pensi che potrò sopportare quella prova?’.

‘Ora mi stai chiedendo di prevedere dei risultati, e quello non lo posso fare.”

‘Mi puoi aiutare a prepararmi per la prova?’.

‘Ti puoi rendere invincibile alla sofferenza, ma non la puoi ridurre né evitare neanche di un briciolo. Essendo invincibile, soffrirai ancora di più’.

‘Non ho paura di soffrire. Ho paura di non essere all’altezza quando sarà messa alla prova la sincerità dei miei insegnamenti’.

‘Molto bene’, disse il Santo. ‘Creeremo un ricettacolo in cui puoi trasfondere la tua anima nel momento della tribolazione. Quando svolgiamo il nostro rituale mattutino, devi scegliere con cura dal letto del fiume una pietra che ti attira in modo speciale. Porta con te quella pietra fino al giorno in cui te ne andrai di qui, e poi sistemala in cima al cumulo di pietre. Ricorda quella pietra ogni giorno della tua vita, in modo che diventi parte di te. Quando il giorno della prova arriverà, puoi concentrarti profondamente e trasfondere la tua anima in quella pietra, dove nessuno può farla soffrire’.

La mattina successiva, quando camminavano in ginocchio lungo il letto del fiume, Zaja trovò una pietra bianca arrotondata come dopo una lunga battaglia con il mare. Scelse quella e la portò con sé durante tutta la sua permanenza nel boschetto della Tinozza.

Il santo gli concesse di trarre copie delle immagini e gli insegnò come meditare su di esse, concentrandosi ora su una singola immagine, ora su un gruppo di immagini, consentendo ai simboli di trascinare la sua mente verso livelli di consapevolezza più profondi, fino a livelli di significato che stanno dietro ai valori superficiali percepiti dalla mente attraverso i sensi. E Zaja cominciò a capire, finalmente, che una più grande verità doveva essere intravvista attraverso le crepe della conoscenza.

Era finalmente pronto per tornare a casa, e prese congedo dal Santo. Al sorgere del sole, Zaja stava in piedi con la pietra bianca tra le mani. La posò con solennità sul cumulo, rendendo grazie per il dono della luce e del calore, rendendo grazie al grande serpente della vita che si arrotola intorno alla terra, come le braccia amorevoli di una madre strette intorno al suo bambino.

Quando abbracciò Zaja, il Santo gli disse: ‘Se ti capita di dover trasfondere la tua anima in quella pietra, la tua anima non potrà mai trovar pace fino a quando non riporterai la pietra nel letto del fiume. E solo tu potrai farlo. Quindi, potremmo incontrarci di nuovo’.

Si narra che quando Zaja si mise in viaggio verso casa, verso il Regno Centrale, fosse il periodo del Samhain, ovvero alla fine del raccolto e all’inizio dell’inverno. L’anno vecchio si era trascinato verso la sua conclusione e il nuovo anno era cominciato con il primo sole di Novembre, un periodo adatto per cominciare un viaggio, sebbene non dal punto di vista meteorologico.

Quando arrivò al grande Fiume Easkey, era in piena e il guado impraticabile. Si sedette su una roccia a guardare l’enorme quantità di acqua e a valutare il da farsi. Poteva aspettare finché la piena non fosse rientrata, ma questo poteva richiedere settimane o mesi. Avrebbe potuto risalire il fiume fino alla sorgente sulle montagne e guadare lì, ma anche quello richiedeva tempo.

Il guado si trovava in una valle boscosa. Zaja si alzò e si incamminò lungo la riva del fiume, ammirando il paesaggio, e riempiendosi le tasche di squisite nocciole. Si fermò quando sentì un gemito provenire da un albero di quercia i cui rami scheletrici sporgevano da un rigogliosissimo ammasso di edera.

‘Perché ti lamenti, sorella quercia?’.

‘Non è ovvio?’, rispose la quercia. ‘Sto per essere soffocata a morte da quest’edera. Non vedi?’.

Quando Zaja si guardò intorno, vide che tutte le grandi querce nella valle erano ricoperte di edera.

La quercia continuò: ‘Questo non è più un bosco di querce, ma un bosco di edera. Che spettacolo penoso. Quando questo piccolo rampicante arrivò nel bosco ridemmo di gusto di fronte a una pianta che non aveva la spina dorsale per alzarsi da terra nemmeno per un centimetro, a meno che non trovasse un appoggio. E l’edera disse: ‘Ridete quanto vi pare, ma prenderemo il vostro posto in questa foresta, la trasformeremo in una foresta di edera, e l’edera avrà la supremazia come la regina della foresta’. Ridemmo ancora po’. Ma poi smettemmo di ridere quando sentimmo i suoi tentacoli arrampicarsi sulle nostre cortecce, succhiarci la linfa, impedirci l’accesso alla luce’.

L’edera allora si rivolse a Zaja. ‘Non dar retta a questa vecchia pazza farneticante. Non si rende conto che il suo tempo è concluso, che la sua corsa è finita. Siamo noi a governare la foresta, adesso. Ovunque tu guardi, vedi edera: sovrana, trionfante; non questi colossi primordiali di quercia, faggio, o castagno. No, l’umile edera è la regina’.

‘La mia corsa è finita, questo è vero’, rispose la quercia. ‘Non c’è più una goccia di linfa dentro di me che possa far germogliare una singola foglia. Farò un patto con te, giovanotto. Ti ho visto arrivare al guado e fermarti. Vuoi attraversare il fiume. Io ti aiuterò. Se eliminerai l’edera dalle mie sorelle querce e dai miei fratelli faggi, mi piegherò assecondando la prossima ondata di vento e cadrò sull’altro lato del fiume per farti da ponte’.

‘Questo è un affare che sono felice di accettare’, rispose Zaja, e cominciò a strappare l’edera dal tronco della quercia più vicina.

‘Ma questo non è giusto’, protestò l’edera. ‘Arrampicarci è la nostra natura, per affacciarci al sole con ogni possibile mezzo’.

‘Poiché distruggi tutto ciò su cui ti arrampichi, è necessario tenerti sotto controllo, tenerti al posto a cui appartieni: e cioè a terra’. E Zaja strappò l’edera, che protestava, dai tronchi di ogni albero. La raccolse in un grande mucchio per bruciarla.

La vecchia quercia, fedele alla parola data, ondeggiò alla prima ondata di vento forte, e atterrò di piatto dall’altra parte del fiume.

Si dice che Zaja non abbia mai dimenticato questo incontro, e che quando divenne reggente, guardasse attentamente ogni uomo per stabilire se avesse la tempra della quercia o quello dell’edera. E esortava il popolo a essere vigile e ad apprezzare la differenza fra le due attitudini.

Zaja incoraggiava la gente del suo regno affinché s’incontrasse ogni sera, a lavoro finito, nelle piazze dei villaggi. Era una buona cosa per loro – diceva – parlare, discutere, fare progetti, cooperare e collaborare, in modo da contribuire a una vita migliore per tutti.

Incoraggiava i poeti e i narratori a servirsi di quest’opportunità per presentare il loro lavoro e intrattenere il pubblico. Incoraggiava perfino i fabbri e gli scultori, gli illustratori e i calligrafi a presentare saggi dei loro lavori in Piazza, in modo che la gente fosse consapevole dei loro sforzi e dei loro risultati.

La Piazza di fronte al Castello ospitava gli incontri più popolari e frequentati fra tutte le assemblee. Ogni sera Zaja andava in mezzo a loro, qui ascoltando una storia, là criticando una poesia, impegnandosi in molte dispute, in particolare in quelle che riguardavano giovani uomini e donne, perché erano loro quelli più passionali nell’espressione delle loro idee.

Una sera una grande folla di giovani uomini e donne stava discutendo dello smantellamento dell’esercito voluto da Zaja. Benché fossero tutti d’accordo che uccidere è sbagliato, alcuni obiettavano che ammazzare per legittima difesa o in difesa del proprio Paese fosse ammissibile. Non appena Zaja si unì al circolo, si rivolsero a lui per averne un verdetto.

‘Non fare agli altri ciò che immagini gli altri farebbero a te’. Zaja ripeté il suo monito abituale. ‘Agisci, non reagire. Lascia che tutto quello che fai sia espressione di ciò in cui credi. Se reagisci, accetti le regole del tuo avversario, e ti comporterai secondo i suoi princìpi e non secondo i tuoi’.

In un’altra occasione, chiesero a Zaja dei suoi viaggi.

‘Zaja, hai viaggiato in tutto il mondo in cerca della saggezza. Ti sei immerso nelle culture dell’Oriente e dell’Occidente, del Nord e del Sud. Quale di queste consideri la più grande civiltà? Quale dobbiamo cercare di imitare?’.

‘Le culture dell’Oriente e dell’Occidente, del Nord e del Sud, sono tutte diverse. Ma le culture non hanno nulla a che fare con la civiltà. Imparate a distinguere. La civiltà si giudica da come l’ultimo della società è trattato nella vita quotidiana; la cultura dai risultati di artisti, poeti e studiosi. E non c’è una priorità; le diverse esigenze della cultura e della civiltà hanno valore in sé stesse, sono assolute’.

In un’altra di queste notti di dibattiti, un giovane uomo scrupoloso prese Zaja in disparte e gli chiese: ‘Come posso condurre una vita degna?’.

E Zaja rispose: ‘Pensa alla vita come a un lago, un bacino dal quale l’umanità trae sostentamento. Contribuisci al lago con ciò che puoi, e prendine quello di cui hai bisogno. E se dai meno di quel che puoi, o prendi più del necessario, allora il tuo tempo e il tuo talento non sono stati utilizzati degnamente’.

Zaja e la moglie, la Principessa Caoimhe, avevano tre figlie. Crebbero fino a diventare belle giovani donne, e quando arrivò il momento delle nozze i pretendenti alla loro mano erano un grande numero. Benché si fossero sposate per amore, successe che una scelse come marito un principe del Regno del Sud, una un principe del regno d’Occidente, e una un principe del Regno del Nord.

Però Zaja non aveva figli maschi.

Quando le persone nella Piazza si lamentavano della partenza delle tre figlie per gli altri tre regni, chiesero a Zaja: ‘Speriamo che tu e la Principessa Caoimhe resterete con noi per molti anni ancora, Zaja; ma a chi ci rivolgeremo quando ve ne sarete entrambi andati? Chi vi succederà in questo regno?’.

E Zaja disse: ‘Lo farete voi’.

‘Che cosa vuoi dire?’, gli chiesero, perché pensavano che stesse scherzando.

‘Non vi ho insegnato tutto quello che c'era da sapere? Perché dovreste avere bisogno di qualcuno che vi dica cosa fare, quando voi stessi sapete perfettamente come gestire la vostra vita, la vita delle vostre famiglie, e gli affari del regno?’.

La gente se ne andò confusa, perché ancora non aveva capito se questo era uno degli scherzi di Zaja.

 

Tra tutti i pretendenti che la principessa Caoimhe aveva rifiutato, il più amaramente deluso era Shumaka. Come nipote di re, come guerriero con una reputazione in ascesa, reputava insuperabili le sue credenziali.

Covava la sua rabbia in attesa di un’occasione per soddisfare la sua enorme ambizione. Ma suo zio, il Re, era riluttante ad affidargli qualunque responsabilità di qualche peso nel Regno d’Oriente, rendendosi conto di quanto incontenibile fosse la sua ambizione, e quanto crudele la sua natura. In verità il Re aveva paura del suo stesso nipote. Dopo l’allusione al bambino e alla corda per saltare alla cerimonia di congedo, aveva fatto domande in giro e si era convinto che Shumaka fosse colpevole dell’omicidio del bambino.

Quando venne a sapere che il prescelto della Principessa Caoimhe come marito e reggente altri non era che Zaja, la rabbia di Shumaka si trasformò in veleno. Bruciava di furia repressa, poiché suo zio il Re non dimostrava alcuna inclinazione alla guerra nonostante la superiorità militare del Regno dell’Est. Nella Sala del Consiglio aveva riferito di insulti e accuse di errori mosse dagli altri regni come cose che richiedevano una risposta militare, ma fu ignorato come se fosse nient’altro che un adolescente bellicoso.

Ma quando a Shumaka giunse la notizia che le tre figlie di Zaja e Caoimhe erano state date in mogli ai figli dei tre re confinanti, la sua rabbia esplose come rompendo una diga. Andò dallo zio e chiese di essere nominato Comandante dell’Esercito, dichiarando che era ormai chiaro che gli altri quattro regni si erano uniti contro il loro. Era arrabbiato perché, come risultato della lunga stagione di pace, al loro esercito era stato permesso di diventare grasso e sonnolento, e non sarebbe stato in grado di proteggere il Paese se gli altri regni avessero mosso guerra contro di loro.

Il re non era convinto che dagli altri regni arrivasse una minaccia, ma quando vide la rabbia del guerriero che si era impadronita di Shumaka, temette per la sua incolumità e per la sicurezza dei suoi figli, gli eredi del suo regno.

Accettò di nominare Shumaka Comandante dell’Esercito, con facoltà di muovere guerra. Pensava che se Shumaka avesse invaso il Regno Centrale ci sarebbero state poche resistenze e poche vittime. E se era occupato nella conquista di un’altra terra per sé stesso, il nipote piantagrane sarebbe stato una minaccia più leggera in casa propria.

Così Shumaka prese formalmente il comando dell’esercito. Affidò ai suoi seguaci personali compiti strategici, e cominciò ad addestrare i soldati alla guerra.

Con discorsi infuocati e con lo spaventoso spauracchio di una cospirazione degli altri quattro regni per attaccarli e sottometterli, Shumaka spinse il popolo del Regno dell’Est a un delirio di eccitazione e aggressività. Tutti i giovani erano stati chiamati alle armi e addestrati alla guerra.

La voce di un attacco imminente raggiunse il Regno Centrale e il popolo si radunò in Piazza chiedendo indicazioni a Zaja. Borbottavano sulla stoltezza di aver sciolto l’esercito e di aver distrutto le loro armi.

Zaja si rivolse alla folla silenziosa. ‘Voglio che mi ascoltiate attentamente e facciate esattamente come vi dico. Ci sarà un’invasione, sì. E noi non combatteremo. Non uccideremo per il nostro Paese. Voglio che tutti voi andiate a casa e facciate la vostra vita normale, lavorando nei campi e nelle officine, cucinando i vostri pasti e badando ai vostri figli. Quando i soldati arriveranno, fingete di non vederli. Non parlate con loro, non date loro da mangiare, non cooperate con loro in alcun modo. È contro il codice dei soldati uccidere un avversario disarmato. Shumaka potrebbe aver addestrato altri cani come lui a ignorare il codice, ma la maggior parte dei soldati sono persone come voi e me, e sanno ciò che è giusto e sbagliato. Se di fronte alla nostra nobiltà avranno comportamenti ignobili, si vergogneranno, e si disperderanno’.

E così, quando l’esercito di Shumaka invase il Regno Centrale, non vi fu alcuna resistenza. La gente continuava a lavorare nei campi come se quello che stava passando fosse un esercito di fantasmi. Per le strade della città la vita continuava come al solito, come se fosse normale avere squadroni di soldati che marciavano in giro, allestivano posti di blocco, e fortificavano gli edifici pubblici.

Quando i soldati arrivarono al Castello, i cancelli e le porte erano aperti, come se fossero attesi dei graditi ospiti. Non appena i suoi soldati ne ebbero preso il controllo, Shumaka entrò, e andò direttamente nella Sala di Stato. Si sedette sul trono, che non era stato più utilizzato da quando il vecchio re era morto. Chiamò Zaja e la principessa Caoimhe perché firmassero una dichiarazione di resa in cui avrebbero ceduto a lui il potere sul Paese.

Ma l’ufficiale che aveva convocato Zaja e Caoimhe fu ignorato, come se si fosse rivolto a pezzi di mobilio. Egli riferì l’esito del suo sforzo a Shumaka, che andò su tutte le furie. Ordinò all’ufficiale di prendere un distaccamento di soldati e di condurre la coppia dinanzi a lui con la forza.

Zaja e Caoimhe vennero arrestati e spinti a forza nella Sala di Stato. Essi si lasciarono spingere avanti fino a che non si trovarono in piedi davanti a Shumaka, ma rifiutarono di guardarlo e di rispondere alle sue domande. Si scambiavano sguardi d’amore, come due giovani ritrosi intenti a farsi la corte.

Shumaka era furioso. Ma non sapeva cosa fare. Non avevano fatto alcuna resistenza, quindi sarebbe stato ignobile ucciderli. Aveva il controllo del Paese, ma voleva diventare sovrano e si era creato l’aspettativa che Zaja e Caoimhe gli avrebbero concesso il potere per legittimare la sua sovranità.

Ma si sbagliava, ed era confuso.

Per molti mesi l’esercito di Shumaka continuò a occupare il Regno Centrale, e Shumaka emanava ordini e istanze ed editti dalla Sala di Stato del Castello. Ma il popolo perseverava saldamente nell’ignorarli. Non parlavano ai soldati, né obbedivano loro, come se ci fossero state due vite parallele che si svolgevano in un unico luogo, ma su livelli diversi: quella dei militari e quella del popolo.

Alla fine i soldati cominciarono a inquietarsi. Erano stati addestrati per combattere e uccidere, ma questa era una guerra per la quale non erano preparati. Divennero agitati. Anche le occasionali atrocità, come uno stupro o un omicidio – chiaramente, gesti di qualche soldato fuori di sé – erano state ignorate dal popolo. Non c’era reazione di nessun genere.

Shumaka era sempre più frustrato. Aveva soddisfatto l’ambizione di una vita intera: conquistare e governare un Paese. E ciononostante, tutto ciò che comandava, ancora, era l’esercito. Non poteva ordinare a un singolo cittadino nemmeno di allacciarsi le scarpe.

Quando i soldati cominciarono dar mostra di totale disaffezione, Shumaka divenne impaziente. Volevano tornare a casa, dicevano. Non vedevano finalità in quest’occupazione continua. Il popolo non mostrava né paura né rispetto, ma continuava a fare la sua vita come se i soldati non esistessero.

Shumaka decise di adottare una misura estrema. Ordinò ai suoi collaboratori più stretti di catturare la Principessa Caoimhe e di imprigionarla in una stanza della torre. Poi diffuse una dichiarazione in cui avvertiva che di lì a tre giorni l’avrebbe portata sul parapetto della torre, l’avrebbe spogliata e si sarebbe congiunto carnalmente con lei, rivendicando così la terra secondo un antico rituale.

I suoi seguaci ridacchiavano: l’antico rito non era granché, come pretesa, ma Shumaka – pensavano – si era dimostrato scaltro in un altro modo. Quella strategia avrebbe lasciato a Zaja l’onere di una scelta. Poteva sfidare Shumaka per proteggere l’onore della moglie, un combattimento destinato a finire con l’uccisione di Zaja e la vittoria di Shumaka. D’altro canto, poteva rimanere fedele ai suoi princìpi e sottrarsi al combattimento, nel qual caso avrebbe consentito a Shumaka di trarre godimento da sua moglie e avrebbe dovuto divorziare da lei. In ogni caso, Shumaka aveva ogni probabilità di guadagnare a sé il regno.

Quando sentirono la dichiarazione, tutti i cittadini de Regno Centrale si diressero verso il Castello, e l’avrebbero assaltato a mani nude per salvare l’amata principessa. Ma Zaja prese posizione in Piazza davanti al Castello e li diffidò dall’alzare un dito. Benché andasse contro i loro istinti, si sottomisero al volere di Zaja.

Quando la notizia raggiunse i Regni del Sud, del Nord, e dell’Ovest, tutti si mobilitarono rapidamente, e tre potenti eserciti convergevano verso il Castello per salvare Caoimhe, la madre delle loro principesse.

Zaja sapeva che il tempo della prova era giunto. Si sedette in Piazza in mezzo al suo popolo, chiuse gli occhi, e si lasciò andare a una profonda meditazione per tre ore. Come gli aveva suggerito il Santo, aveva lasciato la parte migliore della sua anima nella pietra che stava sulla cima del cumulo in un boschetto lontano nel Nord-ovest. E quando riaprì gli occhi dopo la sua meditazione sapeva che anche il più estremo dei dolori non lo avrebbe costretto a piegarsi.

Poi Zaja cominciò a cantare. Lasciò che l’amore che provava per Caoimhe sgorgasse da lui in un diluvio di melodia. Tutte le canzoni d’amore che aveva imparato dai poeti del Regno d’Occidente sgorgarono all’esterno. Le canzoni e la melodia che una volta lo avevano alleggerito per saltare sulla superficie di un lago echeggiavano in tutta la piazza silenziosa. Il popolo e i soldati lo ascoltavano in uno stato di trance. Tutti avevano un amore nella loro vita e riconobbero l’intensità e la sincerità di quello di Zaja. I soldati camminavano disordinatamente a disagio, consapevoli del fatto che erano moralmente sporchi per il fatto di essere coinvolti nelle orride manovre di Shumaka.

Quando i tre eserciti, guidati da suoi tre generi, circondarono il Castello, Zaja chiese loro di ritirarsi.

Erano venuti per salvare l’amata madre delle mogli, dissero. Non riuscivano a capire come Zaja potesse ordinare a tutti di stare a guardare mentre la moglie stava per essere violentata in pubblico da un cane guerrafondaio.

Zaja disse: ‘La mia amata Caoimhe scelse di non sposare un macellaio quando respinse la proposta di Shumaka. Vorreste vederla ora maritata a un macellaio nella persona di Zaja? Vi ho sempre detto di agire, non di reagire. Non lasciate che i vostri nemici vi costringano a fare ciò che è sbagliato, non lasciate che vi abbassino al livello della loro barbarie’.

I tre principi erano perplessi, perché sapevano che Zaja stava agendo secondo i consigli che aveva sempre dato al popolo per poter vivere meglio, e ora doveva mettere alla prova delle sue convinzioni.

Zaja sapeva anche che questa era la prova che era stata prevista molto tempo prima dal Santo. Era stata inevitabile, e Zaja non aveva escogitato nessuna tattica per liberarsene o aggirarla. Poteva solo affrontare la prova. Il dolore e l’angoscia sarebbero stati troppo forti da sopportare se Zaja non avesse trasfuso la sua anima nella pietra in quel Paese lontano dove nessuno – non importava quanto grande fosse la tortura a cui veniva sottoposto – poteva raggiungerla. Ma nei momenti neri desiderava potersi tirare indietro di fronte alla responsabilità di dar testimonianza della verità di ciò che aveva insegnato.

L’esercito di Shumaka controllava il Castello, e file di suoi soldati armati tenevano a bada la popolazione inerme nella zona circostante. Alla periferia della capitale c’erano tre eserciti in attesa dell’ordine di avanzare e massacrare Shumaka e le sue milizie. Di nuovo Zaja si sedette in mezzo al suo popolo cantando canzoni d’amore.

Quando Shumaka apparve sul parapetto urlò che, prima che lui realizzasse la sua minaccia, Zaja aveva l’ultima possibilità di abdicare. Zaja lo ignorò e continuò a cantare. Shumaka fece cenno ai suoi lacchè di portargli Caoimhe. Quando la Principessa apparve, piombò il silenzio su tutta la città. E la canzone d’amore di Zaja si levò sulla folla e raggiunse Caoimhe. Lei abbassò lo sguardo, lo vide, e sorrise.

Shumaka fece cenno ai suoi ufficiali, ed essi spogliarono la principessa. Poi Shumaka si liberò dei vestiti e si mise in piedi davanti agli occhi di amici e nemici, il corpo possente, con i muscoli e i tendini di un grande guerriero. E apparve al popolo come un grande stallone, a membro eretto, bramoso di arrivare alla congiunzione carnale.

La Principessa restò immobile, irraggiando la sua delicata bellezza in totale contrasto con l’aura animalesca del corpo di Shumaka. C’era silenzio assoluto. Nemmeno Zaja riusciva più a far uscire dal petto la canzone. Caoimhe ignorava Shumaka e continuava a guardare verso Zaja, con un sorriso triste sul viso.

Il silenzio fu interrotto dalla banda degli scagnozzi di Shumaka che presero a cantare in modo osceno il loro inno:

Shumaka, Shumaka

Terrore, terrore, terrore.

Poi un soldato dell’esercito di Shumaka si alzò e iniziò a recitare una contro-filastrocca:

Shumaka, Shumaka

Uno, due, tre

E a poco a poco molti dei soldati si unirono:

Shumaka, Shumaka

Lui chi è?

Si dice che il soldato che aveva iniziato il controcanto era stato un compagno di giochi di quel ragazzo che era stato impiccato con la corda per saltare. E molti soldati si ricordarono come il loro gioco d’infanzia fosse stato bloccato dal terrore, così si unirono in canto:

Shumaka, Shumaka

alza la gamba così

Shumaka, Shumaka

piscia sull’albero, lì.

Quando Shumaka guardò in basso, vide il suo esercito che rideva di lui. Ne rimase stupefatto. La sua virilità appassì.

In questo momento di confusione e di esitazione, la principessa Caoimhe sfuggì ai suoi rapitori e saltò dal parapetto. Ci fu un sussulto di orrore quando si lanciò nella caduta mortale. Zaja emise un gemito, e corse a cullare il corpo della moglie.

E mentre Zaja piangeva sul cadavere della principessa Caoimhe, i soldati del Regno dell’Est si guardarono l’un l’altro pieni di vergogna. Poi uno di loro si alzò, gettò le armi a terra, e cominciò ad allontanarsi; poi lo fece un altro, e un altro ancora, fino a che la maggior parte dell’esercito non ebbe gettato le armi in una catasta, e prese a tornare verso casa.

Rimasero solo Shumaka, le sue guardie del corpo, e i suoi scherani. Il popolo prese d’assalto il castello e li arrestò. Li portarono davanti a Zaja e gli chiesero cosa volesse fare di loro. Ma Zaja fece cenno di liberarli. Sentiva un dolore così grande che non riusciva nemmeno a pronunciare le parole.

Nel Regno Centrale il lamento per la morte di Caoimhe era straziante. E il lamento del Regno del Sud, del Regno d’Occidente, nel Regno del Nord trasportò il pianto da un oceano all’altro.

C’erano due fuochi la notte del funerale di Caoimhe, quello della sua pira e quello enorme delle armi che erano state lasciate dai soldati disertori. E le fiamme di quella pira erano così alte che illuminavano il cielo fino al Regno d’Oriente facendo luce sulla strada dei soldati sbaragliati. Quando il loro Re apprese della sconfitta, spogliò Shumaka del suo comando, del suo status di guerriero, e lo bandì dalla corte.

Quando Zaja ebbe raccolto le ceneri della principessa Caoimhe, riunì il popolo in piazza.

‘Per me è giunta l’ora di partire’, disse. ‘Vi ho preparato a questo momento. Voi sapete come vivere, come organizzare le vostre cose, come assumervi la responsabilità degli affari di stato. Ora vi devo lasciare e porto le ceneri di mia moglie in un luogo lontano da qui’.

Molte furono le espressioni di rimorso e le suppliche, ma Zaja mise insieme il bagaglio e lasciò il Regno Centrale.

Zaja si bagnava gli occhi nella Tinozza, il laghetto sacro sotto la cascata. Lentamente il dolore pungente si alleviò e il velo della luce cominciò a scurirsi e a disperdersi. Ancora una volta raccolse l’acqua con le mani e ci fece sprofondare il viso. Il mondo materiale, fatto di roccia e alberi verdi e cielo nuvoloso gli ritornò percepibile. Quando si voltò vide un giovane in piedi, in silenzio, nel letto del fiume. Lo fissò per mettere a fuoco i suoi occhi ed essere sicuro che funzionassero di nuovo. Funzionavano.

‘Cosa posso fare per te?’, gli chiese.

‘Sto cercando colui che chiamano il Santo’.

‘Sei fortunato ad averlo trovato. Se fossi arrivato prima, avresti trovato quello che chiamano il Druido, al suo posto’. E rise a quel vecchio scherzo.

‘Lo so’.

‘Bene: hai fatto i tuoi compiti. Allora vieni e unisciti a me per la colazione’.

Andarono alla capanna di legno di quercia e Zaja mise del cibo sulla tavola. ‘Ora, giovanotto’, disse, ‘dimmi perché sei venuto’.

‘Vengo dal Regno Centrale e sto facendo la mia Ricerca’.

‘Allora, qual è la tua sfida?’.

‘È quella di tutti i giovani che desiderano perfezionarsi: trovare e uccidere chiunque dichiari di essere Zaja’.

‘E chi ti ha imposto questo compito?’.

‘Colui che tiene il comando del ponte al posto del vero Zaja, Shumaka il santo’.

‘Shumaka? Santo?’.

‘Sì, Shumaka il santo, per mezzo del quale l’unico vero Zaja si è rivelato’.

‘Non vado nel Regno Centrale da moltissimo tempo. Shumaka allora era il comandante dell’esercito del Regno dell’Est’.

‘Il che è certamente molto tempo fa. Shumaka infatti era il comandante dell’esercito e acerrimo nemico di Zaja. Invase il Regno Centrale con l’intenzione di impossessarsene. Ma capì la forza dello Zajaismo. Lo Zajaismo aveva fatto presa nei cuori e nelle menti della gente, e la rese invincibile contro la potenza militare di Shumaka e delle forze d’Oriente. Non avevano armi e avevano lasciato i cancelli e le porte delle loro città aperte come se stessero per dare il benvenuto agli invasori. Eppure, senza armi né fortificazioni, con nient’altro che il potere dello Zajaismo, sconfissero l’esercito di Shumaka e lo rispedirono a casa come una marmaglia avvilita”.

Il giovane fece una pausa per mangiare qualcosa e per studiare Zaja, che stava silenzioso. Poi continuò.

‘Fu allora che Shumaka il santo capì i suoi errori. Si pentì, e mise da parte la sua vita precedente. Indossò l’abbigliamento di un mendicante e partì per il suo leggendario pellegrinaggio che durò tre anni. Fece ritorno nel Regno Centrale, chiedendo perdono per il suo ruolo nella morte della loro amata principessa Caoimhe. Tale fu il potere dello Zajaismo che invece di colpirlo a morte sul posto, il popolo lo perdonò e gli lasciò realizzare il suo pellegrinaggio di redenzione’.

Zaja ascoltava, senza parole, e il giovane proseguì il suo racconto ancora una volta.

‘Shumaka fu così commosso da questo potere dello Zajaismo che ne parlava a tutti coloro che incontrava. E le persone erano felici di ascoltarlo. Erano rimasti soli dopo la partenza per l’esilio del grande Zaja, che li aveva guidati per trent'anni, e amavano parlare di lui e riferire dell’esperienza che avevano avuto di lui. Le persone si riunivano a gruppi intorno a Shumaka quando magnificava le virtù di Zaja e il potere dello Zajaismo. I gruppi divennero folle, e alla fine Shumaka il pellegrino mendicante si rivolse alla Piazza gremita fuori dal Castello, esattamente nel luogo del suo gesto ignominioso di cui si pentì a calde lacrime’.

“Calde lacrime”. Zaja tratteneva il riso. Questo giovane non era forse nemmeno nato quando quegli eventi si erano verificati: quindi, dove aveva preso quelle “calde lacrime”? Si trattava ovviamente di un racconto che aveva imparato a memoria. Lo lasciò continuare.

‘E dal momento che Zaja aveva lasciato al popolo la gestione del regno, Shumaka propose di costruire le leggi del regno intorno allo Zajaismo. Il popolo accolse questa proposta con entusiasmo, e chiese a Shumaka di essere l’interprete dello Zajaismo. Shumaka il santo non si sentiva all’altezza di quest’invito, ma accettò la responsabilità, e fu dichiarato Costruttore del Grande Ponte verso Zaja’.

‘Così Shumaka ora interpreta il pensiero di Zaja a beneficio della gente?’.

‘Sì: ecco perché lo chiamano Costruttore del Ponte’.

‘E cosa dice del suo precedente ruolo? Quali sono le sue regole sulla guerra o sugli omicidi?’.

‘Dice che il grande Zaja aveva dichiarato fuorilegge gli omicidi, smantellato l’esercito, e aborriva la guerra. Comunque, durante il regno di Zaja le azioni violente erano sempre motivate da uno scopo indegno. Ora, invece, uno scopo giusto può giustificare la guerra. E l’unica giusta causa è la difesa o la divulgazione dello Zajaismo, che può trasformare un’azione di per sé ingiusta in un atto nobile’.

‘Così Shumaka è tornato a fare il guerrafondaio. È tornato a fare guerra?’.

‘Non si denigra Shumaka il santo. Anche se governa lo Zajaismo dal castello del primo Re, egli è ancora l’umile pellegrino. Egli ricorda spesso al popolo che il Costruttore e custode del Grande Ponte è anche il più abietto dei profanatori dello Zajaismo, a causa delle sue gesta precedenti. Tuttavia, egli sta compensando i suoi misfatti iniziali con la diffusione della parola di Zaja in tutti gli angoli del mondo. Dove la diffusione incontra la resistenza dei vecchi re, governanti e comandanti, tutti detestati da Zaja, allora è legittimo che essi vengano deposti, e – se necessario – con la forza, come ultima risorsa’.

‘E sta riscuotendo successo con questa propagazione della parola di Zaja?’.

‘Il nuovo Esercito dell’Illuminazione di Shumaka ispirato al potere dello Zajaismo è stato irresistibile. I regni del Nord e del Sud, dell’Oriente e dell’Occidente sono tutti caduti dopo una sanguinosa battaglia. I non illuminati sono stati spazzati via dalla faccia della terra, e il nome di Zaja è stato iscritto nella gloria dei cieli’.

‘Tu sei uno di quelli illuminati?’.

‘Sì: la benevolenza di Zaja è tale che tutti coloro che sono nati nella sua comunità vengono insediati, per nascita, tra gli illuminati e attraverseranno il Grande Ponte che Shumaka comanda, purché essi rimangano fedeli alla causa’.

‘Questo Grande Ponte... Dove porta?’.

‘Porta alla destra di Zaja. Chiunque muore restando fedele allo Zajaismo risorgerà nello spirito e sarà accolto al di là del Ponte da Shumaka il santo. E Shumaka garantirà un posto speciale, insieme a tutta la sua famiglia, a chiunque muore martire nelle guerre sante’.

‘E se Zaja fosse ancora vivo in qualche angolo remoto?’.

‘I non illuminati dicono che Zaja è vivo e che quando verrà a sapere di tutto ciò che è stato fatto in suo nome, tornerà per condannare quello che Shumaka il santo sta facendo. Ma la gente dà retta a Shumaka il quale dice che Zaja è morto, ma tornerà senz’altro, questa volta con spirito di vendetta, per guidare le forze dello Zajaismo verso una gloria più grande, per eliminare e punire gli infedeli e gli oppositori, e schiacciare i non illuminati come se fossero nient’altro che lumache sotto i suoi piedi’.

‘E la tua Ricerca?’.

‘La mia Ricerca, e quella di tutti i giovani che entrano nella maggiore età, è localizzare ed eliminare coloro che bestemmiano il nome di Zaja. Shumaka dice che questi blasfemi sono nelle zone disabitate, e sono un insulto agli illuminati che dedicano la loro la vita all’unico e vero Zaja, così come è stato rivelato da Shumaka il santo’.

‘Capisco. E se io dovessi affermare di essere Zaja?’.

‘Sarebbe una bestemmia che grida vendetta al cospetto del cielo e andrebbe punita’.

‘Ma Zaja era un maestro, né più né meno’.

‘È blasfemo insinuare una valutazione così limitata di Zaja. Shumaka il santo ha rivelato che Zaja era molto più di un maestro, che era in realtà di origine divina, il che spiega perché si rivelò invincibile di fronte al grande esercito dell’Oriente. Ma lo Zajaismo è penetrato dappertutto, e non esiste nessun luogo dove i non illuminati e i bestemmiatori possano nascondersi. I giovani appartenenti allo Zajaismo stanno setacciando le zone disabitate, e chiunque offenda il nome di Zaja sarà considerato una figura malefica ed eliminato sul posto’.

‘Nel nome di Shumaka il santo’.

‘No: nel nome del gloriosissimo Zaja, come rivelato da Shumaka il santo’.

Dopo questo confronto, Zaja si sentiva estenuato; più estenuato di quanto si fosse mai sentito prima. Diede al giovane cibo per il giorno e un letto per la notte.

 

Alle prime luci dell’alba, Zaja, come suo solito, si alzò. Prese con sé l’urna con le ceneri della sua amata Caoimhe e la poggiò sul ripiano vicino alla cascata. Poi continuò a svolgere il suo rituale. In cima alla collinetta estrasse la sua pietra speciale, e la teneva mentre le sue braccia tese salutavano il sole nascente. Teneva la pietra sul petto mentre si dirigeva verso il lago sacro. Quando riacquistò la vista esaminò il letto del fiume, individuò un posto in mezzo alla corrente, e lì posò la sua pietra. Poi prese l’urna e versò le ceneri nel ruscello, così che seguissero la scia della pietra verso il mare.

Quando tutto fu compiuto, Zaja si inginocchiò sul letto del fiume e aspettò. Nella lettura le sue immaginette, aveva decifrato il presagio di una fine di questo genere.


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Arcana by Jack Harte
Translated into Italian by Federica Sgaggio, and Nicoletta Di Rubbo


Published online by Scotus Press, Dublin - www.scotuspress.com info@scotuspress.com
Copyright © Jack Harte, 2013. Cover Design : Henry Sharpe
Copyright of translations rests with the translators, who can be contacted through Scotus Press